Prima di Marx il socialismo era una sorta di desiderio volontario, che derivava senza dubbio dalle fantasie sulla vita della prima cristianità quando ogni cosa si presupponeva fosse condivisa. Ci furono pochi tentativi di formare comunità cristiane socialiste, e molte di esse fecero una fine infelice, specialmente quella degli anabattisti di Munster. Anche comunità socialiste secolari – per esempio, i tentativi di Robert Owen – si esaurirono, sebbene in maniera più pacifica.
Marx affermava di avere reso scientifico il socialismo, frase con cui voleva intendere che era convinto di aver scoperto il meccanismo che ha guidato la società attraverso la storia: concluse che il socialismo era la prossima inevitabile fase dell’evoluzione. Lui e il suo collaboratore Engels esposero la teoria nel Manifesto del Partito Comunista [in inglese] del 1948, e Marx passò il resto della vita lavorando sui dettagli. Lotta di classe, mezzi di produzione, trionfo della borghesia nei tempi moderni, teoria del valore/plusvalore del lavoro, più la borghesia aveva successo e più creava la sua distruzione. “Ciò che quindi la borghesia produce, sono, soprattutto, i suoi becchini. La sua caduta e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili” [in inglese]. E’ una teoria completa della storia e della società. La forza motrice del prossimo periodo socialista è la depauperazione dei lavoratori, poiché i proprietari dei mezzi di produzione spremono maggiore plusvalore dai lavoratori, diventano più potenti e più ricchi mentre la condizione dei lavoratori peggiora:
Secondo lo stesso processo, sempre più ex ricchi capitalisti vengono portati alla rovina e spinti nelle fila dei miserabili lavoratori (“Uno solo capitalista ne uccide sempre tanti” [in inglese]) fino a quando (ma i dettagli non vengono mai veramente descritti) non ci saranno pochi ricchi e tanti poveri, e:
Non è necessario che la fase finale debba essere particolarmente violenta: alla fine ci sarebbero così pochi super ricchi che non farebbe molta differenza nel grande schema delle cose se fossero impiccati a un palo della luce o mandati in pensione come l’ultimo imperatore cinese.
Marx credeva di aver scoperto le leggi, i processi e gli ingranaggi, che hanno guidato la storia e la società: il modo in cui sono e saranno le cose, modo che deve essere scientifico. Dopo Marx, il socialismo non è più qualcosa da desiderare, qualcosa che un ricco e generoso proprietario può creare se gli viene chiesto con educazione, un appello alla coscienza cristiana, ma qualcosa che costituisce il vero meccanismo della realtà com’è e come si deve sviluppare. Il socialismo è congenito alla storia.
Ma c’è subito una contraddizione: se è scientifico, nulla che tu o io possiamo fare, lo renderà più veloce o lento, quindi non ha senso entrare nei partiti socialisti. Alle leggi della fisica di Newton non interessa se tu o io creiamo una società per fare proselitismo su tali leggi. Ma se è importante lavorare per il socialismo – e lo stesso Marx fu coinvolto da vicino in almeno un tentativo di farlo [in inglese] – allora non è inevitabile e, quindi, non scientifico. Questo ha creato due filoni nel marxismo: lo spontaneismo (succederà a suo tempo) e il volontarismo (si deve fare in modo che accada).
La previsione scientifica secondo cui A va a B e da B a C andò in crisi alla fine del 1800. Eduard Bernstein sosteneva che le cose non seguivano il percorso che Marx aveva previsto mezzo secolo prima: la proprietà del capitale non si stava concentrando nelle mani di sempre meno persone, e le condizioni dei lavoratori non stavano peggiorando. In una parola, gli sviluppi politici (il potere politico della classe lavoratrice) stavano cambiando le leggi di Marx. Da questo conflitto tra teoria e osservazione è nata l’idea di ciò che noi ora chiamiamo social democrazia. I socialisti dovrebbero lavorare all’interno del sistema per ridurre le ore lavorative, spezzare i monopoli, eliminare il lavoro infantile, rafforzare i salari, sostenere i sindacati e così via: in termini marxisti, usare il potere politico per costringere i proprietari a rinunciare a una significativa porzione del plusvalore. La social democrazia potrebbe essere armonizzata con l’idea della libera impresa intendendola come pareggiamento delle condizioni. Se l’essenza del libero mercato è la competizione, allora chi può dissentire dall’idea che la domanda di lavoro debba competere liberamente con il capitale a parità di condizioni; se la concorrenza finale è desiderabile, allora è desiderabile anche quella iniziale. L’economia mista: il dinamismo del libero mercato impedisce la stagnazione e la burocrazia del socialismo, il potere del lavoro ha impedito lo schiacciamento dei deboli e il governo è il garante dell’equilibrio.
Lenin odiava le conclusioni di Bernstein (“revisionismo” [in inglese]) e nel suo libro “Che fare?” [in inglese] prende una via diversa: pochi informati e disciplinati dovrebbero guidare lo sviluppo. E questo ha portato all’Unione Sovietica e, nella sua fine cadente, al “socialismo sviluppato” di Brezhnev. (Per inciso: Brezhnev somiglia a ciò che è il re filosofo di Platone, quando le persone vere lo sperimentano in tempo reale). E’ interessante osservare, comunque, che sia la corrente di Bernstein che quella di Lenin erano approcci volontaristici: il futuro sarà creato dagli atti di volontà di oggi. Alla faccia del socialismo scientifico.
L’economia mista ha funzionato piuttosto bene per molto tempo, e le social democrazie europee hanno realizzato alti livelli di vita e di giustizia sociale in maniera generalizzata. Anche negli Stati Uniti con il loro odio per il “socialismo”, ha realizzato un buon livello di vita per il “proletariato”, grazie al potere dei sindacati e al voto a maggioranza. Piuttosto che esistere tristemente ai margini del lavoro a prezzo di mercato come i protagonisti del romanzo “I filantropi con le pezze ai pantaloni” [The Ragged-Trousered Philanthropists], in Occidente un lavoratore può comprare una casa e sostenere una famiglia. Complessivamente, la maggioranza delle persone potrebbe essere d’accordo sul fatto che è stato raggiunto un buon equilibrio, e che le previsioni di Marx sono state smentite. Il collasso dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti sono stati come colpi di una pistola sparachiodi sulla sua bara. I marxisti si sono trasformati in folli con le basette che agli angoli delle strade strillano che non è fallito perché non è mai stato realmente provato!!!
* * *
Ma quello era allora, e questo è ora. Ciò che mi ha fatto cominciare a pensare a queste cose è stato questo titolo “Uno studio rivela che i tre americani più ricchi possiedono più ricchezza del 50% del Paese” [in inglese]. E’ piuttosto sbalorditivo: tre persone possono comprare 160 milioni di Americani, pagare i loro affitti e mutui, ripulire i loro conti di risparmio, intascare i loro piani sanitari, svuotare i loro piani pensione, gettare i loro vestiti nel cassonetto dell’Esercito della Salvezza, ammucchiare i loro soprammobili a bordo del marciapiede e incassare il ricavato delle loro otturazioni. Per quanto riguarda l’acquisto dell’altro 50%, l’unica domanda è quanti miliardari [in inglese] servirebbero: un centinaio, duecento? Quanto tempo prima i tre potevano comprarsi i due terzi della popolazione? (La scorsa settimana ci hanno detto che uno dei tre ha aggiunto sei miliardi alla sua cassa [in inglese], cifra che equivale a dodici delle ultime navi da crociera Princess o a metà di una portaerei americana). Prima di sentir parlare dei tre big, avrei dovuto sapere da questo studio del 2014 che “I ricercatori hanno quindi concluso che la politica americana è formata più da specifici gruppi di interesse che da politici che rappresentano correttamente la volontà della generalità delle persone, incluso la classe meno agiata dal punto di vista economico” [in inglese]. I due titoli non sono, a dir poco, disgiunti.
Scendendo al livello di semplici milioni, apprendiamo che “come reso noto dall’azienda, nella serata di venerdì, il dimissionato CEO di Boeing, Dennis Muilenburg, ha lasciato la compagnia con stock option e altri beni per un valore di 80 milioni di dollari, ma non ha ricevuto la liquidazione” [in inglese]. Un’azienda d’eccellenza, probabilmente distrutta durante il suo mandato, e lui si mette in tasca tanti di quei soldi che né tu o io, né tutti i lettori di questo articolo potranno mai vedere. Nel frattempo, negli Stati Uniti i salari medi non sono cambiati di molto in 40 anni [in inglese]. I ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri.
Che cos’è successo? Bene, in poche parole, i ricchi hanno afferrato il potere, preso il controllo del governo e hanno dato il via alla disparità di condizioni. Ovunque possano esercitare il loro potere, loro lo esercitano: gli stipendi dei dirigenti salgono, le tasse universitarie crescono, i parlamentari diventano più ricchi, la burocrazia si diffonde, i salvataggi governativi si defilano. Niente di questo è nuovo o inusuale, certamente: ‘avidità+potere=più avidità’ è un’equazione che vale sempre e ovunque. Ma da qualche parte l’Occidente ha perso le forze contrapposte che bilanciavano l’avidità dei capi con l’avidità dei sindacati. Lo vediamo in tutto l’Occidente: super ricchi, salari dirigenziali giganteschi, vantaggi illimitati per alcuni e austerità per gli altri. Più drammaticamente negli Stati Uniti, ovviamente, perché è il leader dell’Occidente e il “primo ad averlo adottato”. I socialisti e le istituzioni che hanno incoraggiato, hanno fornito una forza di contrapposizione e il potere duro ha creato un equilibrio in cui tutti hanno ottenuto qualcosa. Da qualche parte questa forza di contrapposizione è scomparsa.
* * *
Quindi, in un certo senso, ciò che Marx aveva previsto 170 anni fa, è accaduto. Molto più tardi di quanto ci si aspettasse e molto diversamente da quanto ci si aspettasse. La sua teoria sosteneva che i proprietari dei mezzi di produzione (Carnegie, Vanderbilt, Rockefeller) avrebbero governato il mondo. Ma dei tre Americani che, come ci dicono, possono comprare metà della popolazione, uno è un investitore, un altro uno sviluppatore di software e il terzo l’inventore di un negozio di vendita per corrispondenza. Dove sono i mezzi di produzione? Bene, altra ironia, sono stati venduti alla Cina.
Quindi i super ricchi occidentali possiedono cose intangibili, e i comunisti dell’Est possiedono i mezzi di produzione: non esattamente ciò che Marx si aspettava.
Eppure, tre persone sono ricche come mezza nazione? I legislatori fanno ciò che gli viene detto da chi li paga? E’ un po’ come l’ultima fase del capitalismo di cui parlava Marx: pochi, pochissimi, super ricchi e un grande numero di persone in miseria.
Come oggi potrebbe dire Marx, gli oppioidi sono l’oppio dei popoli.
Quindi cosa succederà? Il Covid-19 sta brutalmente rivelando che queste società occidentali non sono in realtà molto efficienti. E’ significativo che tre quarti dei casi di Covid-19 siano stati registrati in paesi NATO [in inglese]? Solo sei mesi fa, si presumeva fossero i più preparati [in inglese]. Guerre senza fine continuano all’infinito, il debito cresce, aumenta il divario della ricchezza, la politica di austerity avanza inesorabilmente. La propaganda dell’eccezionalismo occidentale è ancora forte, ma più debole e meno convincente ad ogni fallimento.
Il mondo sta cambiando, e Karl Marx non sembra così obsoleto come 50 anni fa.
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Articolo di Patrick Armstrong pubblicato su Strategic Culture il 26 aprile
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per Saker Italia.
[I commenti in questo formato sono del traduttore]
La redazione di Saker Italia ribadisce il suo impegno nella lotta anti-mainstream e la sua volontà di animare il dibattito storico e politico. Questa che leggerete è l’opinione dell’autore; se desiderate rivolgere domande o critiche purtroppo questo è il posto sbagliato per formularle. L’autore è raggiungibile sul link dell’originale presente in calce.
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Una qualità (a malincuore) ho dovuto sempre riconoscere agli angloamericani.
Sanno scrivere bene.
Sanno divulgare benissimo.
Sono molto convincenti.
Leggere un racconto di Jack London, di Catherine Mainsfield, di James G. Ballard, o un articolo come questo di saggistica politica è indifferente… alla seconda riga, alla terza al più, sei “dentro”, non sei più seduto davanti al pc, sdraiato sul letto o acciambellato sulla poltrona… sei lì, NEL racconto… NELL’ ARGOMENTO del saggio, NEL ghiaccio dell’Alaska o NEL giardino di un villino neozelandese.
Il traduttore, con l’esperto equilibrio del suo gusto contribuisce non poco.
Lessi qui una volta un articolo ( e vorerei tanto essere aiutato dalla redazione per rintracciarlo!!) con la firma femminile e che prospettava “…la soluzione finale del problema americano”!
Questo?
http://sakeritalia.it/attualita/russia-e-stati-uniti-fine-anno-con-una-sorta-di-gran-finale-per-entrambi/
Grazie per l’attenzione, ma non era un articolo del Saker.
era proprio a firma femminile. (o forse era la traduttrice?).
beh, insomma, e aveva proprio quella frase molto dura che ho virgolettato perchè è testuale, ma mi colpì perchè era una scoppiettante serie di espressioni ugualmenteentusiasmanti!
era un articolo un pò polemico, con venatura di umorismo, e un poco inconsueto per il grado medio di compostezza di questo sito.
ricordo anche i commenti dei lettori entusiasti, del tipo “I Love you” rivolto all’autrice!
Devo prendere l’abitudine di salvarmi gli articoli più stuzzicanti. altrimenti poi sono introvabili.
non sempre l’immediatezza è caratteristica dello scrivere anglosassone. Nondimeno “la vecchia Dogana, introduzione a La lettera scarlatta” di N. Hawthorne è alta letteratura
“…Nella mia città natale di Salem, alla cui estremità or è mezzo secolo, ai tempi del vecchio King
Derby, c’era un molo pieno d’animazione, ma che oggi è ingombro di cadenti magazzini di legno e
presenta pochi o punti segni di vita commerciale, tranne forse un tre alberi o un brigantino
ormeggiati a metà della sua melanconica lunghezza, che sbarcano pellami; ovvero, più a riva, una
goletta della Nuova Scozia che butta fuori il suo carico di legna; all’estremità, dico, di questo molo
in rovina che la marea spesso inonda e lungo il quale, alla base e sul retro della fila delle
costruzioni, l’orme di molti languidi anni si scorgono su un margine d’erba stentata: ivi sorge uno
spazioso edificio di mattoni, le cui finestre anteriori guardano su tal prospetto non troppo
riconfortante, e oltre di esso, sul porto. Dalla sommità del suo tetto ogni mattina, durante tre ore e
mezzo precise, fluttua o langue alla brezza o alla bonaccia la bandiera della repubblica; ma non con
le tredici strisce diritte, bensì orizzontali, a indicare che ivi ha la sua sede un posto civile e non
militare del governo dello Zio Sam. La facciata si fregia d’un portico composto d’una mezza
dozzina di colonne di legno che reggono un terrazzo, sotto al quale una rampa d’ampi scalini di
granito scende in istrada. Sull’entrata si libra un enorme esemplare dell’aquila americana con l’ali
spiegate, uno scudo sul petto e, se ben ricordo, un fascio di saette e di frecce acuminate in ambo gli
artigli. Col notorio caratteraccio che lo distingue, il disgraziato pennuto mostra mediante la ferocia
del becco e dell’occhio e la truculenza di tutto l’atteggiamento, di minacciar qualche guaio
all’inoffensiva comunità; e specialmente di sconsigliare i cittadini solleciti della propria salvezza
dall’accostarsi al fabbricato che ripara all’ombra delle sue ali. Ciononostante, per bisbetica ch’essa
appaia, molta gente sta cercando in quest’istante preciso di rifugiarsi sotto l’ala dell’aquila federale;
figurandosi, penso, che il suo seno sia soffice e confortevole come un origliere imbottito di piuma.
Ma costei non è troppo tenera neppure nel miglior stato d’animo, e tosto o tardi, più tosto che tardi,
sarà incline a sbarazzarsi della nidiata con un graffio dell’artiglio, un colpo del becco o un’acerba
ferita delle frecce aguzze.
Nelle crepe del selciato torno torno all’edificio ora descritto, che tanto vale designar subito come la
Dogana del porto, l’erba è sufficiente a mostrare come in questi ultimi tempi l’affluenza del traffico
l’abbia completamente trascurato. Durante certi mesi dell’anno, peraltro, capita sovente un mattino
in cui gli affari procedono con ritmo più animato. Tali occasioni possono rammentare ai cittadini
attempati il periodo precedente all’ultima guerra con la Gran Bretagna, quando Salem era un porto
bastante a se stesso: non già disprezzato com’è oggi dai suoi stessi mercanti e armatori, i quali ne
lasciano andare in malora gli approdi, mentre i loro traffici vanno a gonfiare vanamente e
impercettibilmente il flusso poderoso del commercio a New York od a Boston. In siffatte mattine,
quando tre o quattro bastimenti arrivano al contempo, per lo più dall’Africa o dal SudAmerica, o
sono in procinto di salpare a quella volta, s’ode un viavai di passi più vivaci sugli scalini di granito.
Ivi puoi salutare ancor prima della sua moglie medesima, il capitano adusto dal mare, sbarcato testé,
che reca sottobraccio una scatola di latta arrugginita contenente le carte di bordo. Qui giunge pure
l’armatore, allegro o triste, affabile o arcigno, a seconda che il suo progetto del viaggio or ora
compiuto si sia concretato in mercanzie facilmente cangiabili in oro, o l’abbia sepolto sotto un
ammasso d’impicci, dai quali nessuno si darà pena di sbarazzarlo. Qui abbiamo del pari in embrione
il futuro mercante logorato dagli affanni, con la fronte grinzosa e la barba brizzolata, vale a dire il
giovane e brillante scrivano, che gusta il sapore del traffico come il lupatto quello del sangue, e già
arrischia il suo sulle navi del principale, quando farebbe meglio a mandare barchette da ragazzi in
una gora. Un’altra figura della scena è il marinaio pronto a salpare, in cerca d’un salvacondotto; o
l’altro sbarcato di recente, debole e pallido, che vuole un certificato per l’ospedale. Né dobbiamo
dimenticare i capitani delle piccole e tartassate golette che recano legna dalle province inglesi; rozzi
lupi di mare, senza quell’aria sveglia degli Yankees, ma che pure costituiscono un elemento
tutt’altro che trascurabile nel nostro commercio in declino.
Ammucchia, come talvolta accadeva, tutti cotesti individui, e mettine degli altri differenti nel
mazzo per dar varietà all’insieme: farai provvisoriamente della Dogana una scena movimentata. Più
spesso tuttavia, salita la scala, avresti potuto notare, nell’ingresso d’estate o nelle lor stanze
d’inverno o col maltempo, una fila di venerande figure sedute su antiche sedie, che mantenevano
inclinate contro la parete puntellandole sulle gambe di dietro. Il più delle volte dormivano; ma ogni
tanto le sentivi discorrere assieme, con certi suoni nei quali la favella si alternava al ronfare, e con
la fiacca che distingue gli abitanti dell’ospizio e tutti gli altri esseri umani, il cui sostentamento
dipende dalla carità o dal lavoro monopolizzato o da qualunque cosa tranne che dal libero esercizio
della loro attività. Quei vecchi messeri, seduti come Matteo a riscuoter gabelle, ma che avevano
poche probabilità di venir prescelti a somiglianza di lui per mansioni apostoliche, erano i doganieri.
Inoltre sulla sinistra, appena entrato dalla porta principale, trovi una certa stanza od ufficio di circa
quindici piedi quadrati e considerevole altezza, con tre finestre ad arco, due delle quali guardano sul
molo cadente testé descritto e la terza su un sentiero angusto e una parte della via Derby. Da tutte e
tre puoi cogliere una visione delle botteghe dei droghieri, dei bozzellai, dei venditori di divise da
marinaio e d’attrezzi per bastimenti; sul cui uscio si osserva di solito un crocchio di vecchi lupi di
mare ridanciani e pettegoli, e di quei tali lestofanti che infestano i paraggi malfamati dei porti.
Cotesta stanza è piena di ragnatele e sudicia di vecchio intonaco; il pavimento cosparso di sabbia
grigia, secondo un’usanza ormai dimenticata altrove; ed è facile concludere dall’uniforme sciattezza
del luogo, com’esso sia un santuario ove ha di rado l’accesso la donna coi suoi magici arnesi, la
scopa e lo strofinaccio. Quanto a suppellettili, c’è una stufa con un voluminoso fumaiuolo; un
vecchio scrittoio di pino e accanto uno sgabello a tre gambe; due o tre sedie dal fondo di legno,
decrepite e malandate quanto mai; e per non dimenticare la biblioteca, parecchi tomi degli Atti del
Congresso e una grossa Raccolta delle Leggi sulle Imposte. Un tubo sottile sale su pel soffitto e
forma un tramite di comunicazione verbale con altre parti dell’edificio. E in quella stanza, fino a un
sei mesi fa, misurandola da un canto all’altro o seduto indolente sullo sgabello dalle gambe lunghe,
col gomito appoggiato allo scrittoio e gli occhi vaganti per le colonne del giornale del mattino,
avresti potuto riconoscere, riverito lettore, quello stesso individuo che ti porse il benvenuto nel suo
allegro studiolo, ove il sole luccicava così ameno tra i rami del salice sul lato di ponente del
Vecchio Presbiterio. Ma se adesso tu andassi a cercarvelo, invano chiederesti del Soprintendente
Locofoco. La scopa della riforma l’ha spazzato dall’ufficio; e un successore più degno ricopre
quell’alto posto e intasca i suoi emolumenti…..”
“…Karl Marx non sembra così obsoleto come 50 anni fa”. Non lo è mai stato, Sig. Armstrong, non lo è mai stato.
Marx non “credeva” di aver scoperto le leggi, i processi e gli ingranaggi, che hanno guidato la storia e la società, Marx ha analizzato storicamente e tecnicamente il Capitalismo e reso fruibili i meccanismi che regolano il suo funzionamento.
L’aggettivo “scientifico” apposto al termine socialismo intendeva marcare la differenza col socialismo di derivazione cristiana.
Marx ha studiato, analizzato, i processi economici e quindi produttivi. Nel suo momento storico eravi il capitalismo che oscillava tra il modello ricardiano e il francese fisiocratico. Venato qua e là da misere elemosine di un mix di paternalismo cattolico e beau geste protestante
ricordo un altro particolare:
quella frase molto a effetto (“la soluzione finale del pronlema americano”) non era assolutamente riferita ad una problematica militare o “missilistica” ma, ma mi pare, al suicidio progressivo del sistema americano in generale accelerato con Trump.
Marx, non sbagliava ad interpretare il fenomeno sistemico dell’economia di Mercato che conosciamo con il nome “capitalismo”;non si è azzardato a determinarne il tempo, il limite del tempo che gli è stato concesso dal determinismo storico ,ovvero dai comportamenti umani.
Dunque il limite del tempo è il limite per eccellenza che misura la sua massima espansione nel vantaggio ad investire il capitale e realizzare i profitti .
Tale limite è una costante matematica, la nota (e) che è anche la base del logaritmo naturale e=2,728282828…ed infinite cifre;
tale valore si esprime con la formula e= (1+1/n)^n che Marx certamente conosceva e da cui trasse la certezza che era il limite al guadagno e/o al saggio d’interesse massimo che il capitalista ed il sistema Capitalista potevano e possono realizzare ed oltre il quale era ed è necessario disinvestire per dedicarsi ad operare su altri prodotti. E questo riguardo al singolo capitalista :Ma riguardo invece del sistema economico il capitale trovava il suo limite nella limitatezza del Mercato fisico ( le risorse del pianeta) e negli accidenti degli comportamenti umani e della Natura.
I capitalisti ,prima di morire hanno differitoto il proprio funerale con l’escamotage dell’economia finanziaria che per le ragioni di cui sopra è destinata a defungere sui propri delitti.
Marx non sarà ricordato come un salvatore dei derelitti perché essi quando sono salvati sono anche ingrati.
Tuttavia ha messo un limite di tempo( con la caduta del saggio di profitto) all’esistenza dell’ingordigia capitalistica che ora, dopo aver battuto il sistema antagonista, non può combattere se stesso perché non c’è alcun antidoto verso la fine della sua esistenza ,come tutti gli imperi personali e statuali hanno dovuto sperimentare e sparire.
segnalo che nel tweet di Marco Bordoni c’è oggi una dichiarazione interessante di Lukashenko sul concetto di PRIVATIZZARE.
Lui ha i suoi limiti, però ogni tanto, pur nella sua ruvidezza di linguaggio e di ragionamento un pò rurale… la coglie giusta!