Stiamo vivendo un’epoca di lunga crisi. Sembra uno di quei luoghi comuni che si rincorrono periodicamente nell’immaginario collettivo sociale. C’è sempre una crisi da qualche parte della vita anche quando non c’è, tanto che persino gli uomini rinascimentali si sentivano in crisi per qualcosa eppure noi consideriamo, ex-post, quel periodo una età dell’oro. Come nel film di Woody Allen, Midnight in Paris, c’è sempre una belle époque trascorsa da invidiare anche per la stessa bella époque. Vi è sovrapposizione tra il concetto di crisi e quello di cambiamento ed indubbiamente si tratta di elementi intrecciati. Una crisi può segnalare una metamorfosi in atto, che quest’ultima poi sia positiva o negativa è tutto da valutare. Nulla però è più relativo di una crisi dalla quale qualcuno esce rinvigorito e qualche altro indebolito. La crisi non è l’apocalisse e chiunque ceda al catastrofismo in simili casi è vittima di paure recondite che l’animo umano elabora spontaneamente quando vi sono trasfigurazioni dell’ordine sociale. In ogni caso, la crisi indica una trasformazione ed una crisi sistemica evidenzia una profonda alterazione di un qualcosa che appariva stabilizzato per sempre. Nel nostro modello di società capitalistica le crisi si manifestano innanzitutto dal lato finanziario ed economico. Siamo una società fondata sulla produzione di merci ed è inevitabile che sia così. Ma lo scambio merceologico nasconde rapporti sociali di un certo tipo, ad ogni livello della scala sociale, in cima alla quale troneggiano i rapporti di forza tra classi dominanti che guidano gli Stati nel contesto mondiale. Quest’ultimo è inevitabilmente un ambito conflittuale, anche quando la sproporzione delle forze sembra attutire le diatribe tra i giocatori che allora ricorrono a narrazioni collaborative o associative obnubilanti i vari attriti, destinati prima o dopo a manifestarsi con virulenza. Quando questo accade nessun business, per quanto profittevole, vale un appeasement tra gli agenti in lotta. Si percepisce allora quanto l’economia sia subordinata alla politica, sempre decisiva in ultima istanza.
Quello che attualmente sta saltando è, appunto, un ordine di potere internazionale basato su un unico centro regolatore che per un ventennio non ha avuto avversari sulla scacchiera globale. Adesso gli sfidanti ci sono e si producono spinte centrifughe che ridisegnano l’universo della dominanza globale. E’ un processo lento che tuttavia, teleologicamente, riprogetterà le relazioni mondiali passando da conflittualità sempre più acute che potranno anche sfociare in guerre a bassa e poi alta intensità.
Riconfigurazione oltre l’economia
Ma procediamo per gradi. Nel modo di produzione capitalistico le crisi economiche sono sempre da domanda. Si produce più di quel che si può vendere sul mercato. Le crisi da penuria appartengono alla storia di modi di produzione ormai superati, legati soprattutto all’agricoltura, all’allevamento e a tutti gli altri modelli pre-industriali. Un modo di produzione è l’involucro sociale, storicamente specifico, che ricomprende le forze produttive e i rapporti del produrre. E’ il cosiddetto scheletro della società che però è fatta anche di altro: carne, muscoli, nervi, sangue, ecc. Tutto ha la sua importanza e non si deve ridurre ogni cosa al solo aspetto economicistico come accade volentieri nelle interpretazioni più in voga.
Il carattere più generale della crisi capitalistica è la sovrapproduzione, l’eccesso di beni rispetto alla richiesta. Piuttosto che deprezzare l’invenduto si preferisce portarlo al macero per non provocare ulteriori guai. Questo può essere odioso socialmente ma anche se le merci fossero distribuite gratis a chi ne ha bisogno simile soluzione non costituirebbe una via d’uscita dalla difficoltà strutturale in cui versa il sistema. Le grandi masse subiscono questa situazione e non possono consolarsi col fatto che il loro malessere dipenda da surplus produttivo piuttosto che da carenza. Però c’è una bella differenza tra queste casistiche. Le carestie erano eventi davvero tragici contro i quali si poteva poco e che decimavano fisicamente le popolazioni. Ora i drammi sono più contenuti e meno dipendenti dai capricci della natura. I “cicli della disperazione” si sono accorciati e non portano con sé conseguenze così gravi come epidemie e abbandono. Almeno nelle nostre società sviluppate i poveri non muoiono di fame e non si danno al vagabondaggio, se non minimamente. Una crisi capitalistica non crea il deserto perché avviene, pur sempre, in un contesto di avanzamento produttivo, in cui si susseguono scoperte tecnologiche, miglioramenti di processo e, soprattutto, realizzazione di nuovi prodotti, cui però non corrisponde, transeuntemente, l’aumento della capacità di acquisto delle masse. Molte merci restano nei magazzini, le imprese soffrono perdite, sono costrette a ridurre la produzione e le unità lavorative occupate; esse devono chiudere o persino fallire. Questa è la tendenza generale contrastata però dalla proliferazione di settori innovativi, destinati, presto o tardi, a decollare. Si avvia un’altra rivoluzione produttiva che sprigionerà le sue potenzialità e lo sviluppo si rimetterà in marcia. Certamente, chi perde il lavoro non consuma, facendo crollare ulteriormente la domanda di tali prodotti, a loro volta le imprese riducono quella dei beni di produzione smettendo d’investire. La crisi si estende. È corretto pensare, in queste contingenze, a forme di sostegno per i ceti colpiti ma ciò non basterà ad invertire la rotta finché non saranno “aggiustati” altri aspetti di cui la crisi è mero faro di segnalazione.
Solo l’occhio più superficiale non comprende che nella crisi si manifesta il sintomo di una ristrutturazione o riconfigurazione che oltrepassa i confini dell’economia. Ed è quello che più ci interessa nel nostro ragionamento. La storia qui ci viene in soccorso, mutatis mutandis, con episodi similari di cui occorre tenere conto.
La seconda rivoluzione industriale, verificatasi tra fine Ottocento e inizio Novecento, fu attraversata da una lunghissima stagnazione, proprio mentre si gettavano le basi di un grande balzo tecnico accompagnato da profondi mutamenti geopolitici. Poiché, come già enunciato, la società capitalistica appare come un grande ammasso di merci, è ovvio che i suoi terremoti più profondi si presentino alla luce del sole con sconvolgimenti in questa sfera, prima a livello finanziario, poi della cosiddetta “economia reale” e, infine, nei rapporti di forza tra aggregati statali (a livello della sfera politica, dove si staglia il vero nucleo della complessità sociale e dei suoi decisivi conflitti per la preminenza). A seconda delle fasi, le crisi possono risolversi con sistemazioni che non incidono sul funzionamento generale dell’economia, e qui si parla di recessioni, (da affrontare con correttivi quasi standardizzati) oppure, quando ci trova in epoche di incertezza geopolitica, la crisi, discende da accesa competizione interstatale, la quale determina l’inceppamento delle regole del “gioco”. Noi ci troviamo all’imbocco di un’epoca di quest’ultimo tipo, con la fine del monocentrismo statunitense, e l’avanzata del multipolarismo (grazie alla risalita di Russia e Cina) che impedisce alla superpotenza di essere unilaterale nelle sue decisioni.
La crisi contemporanea è dunque débâcle da sregolazione geopolitica (seguita da importanti novità a livello tecnologico e produttivo, la cui portata si vedrà col tempo) che non annuncia il definitivo precipitare del capitalismo (il termine è ormai riduttivo per definire il nostro modo di riproduzione sociale, forgiato sul modello statunitense) nel finanziarismo parassitario, bensì l’inizio di una acerrima conflittualità tra aree per la supremazia mondiale, politica e, in subordine (o meglio, contestualmente), anche economica.
Fine del monocentrismo e debacle da sregolazione politica
È passato oltre un decennio dall’esplosione della bolla immobiliare americana del 2008 che diede avvio alla crisi in argomento. Essendo la natura di questa prevalentemente (geo)politica e non finanziaria, come creduto erroneamente anche da presunti esperti, non si verrà fuori da essa prima di una riconfigurazione dei rapporti di forza a livello globale. L’America è in relativo declino, le sue sfere egemoniche traballano, seppur a “rallentatore”, ma la Storia si è rimessa a camminare offrendo nuove opportunità alle potenze che non condividono l’approccio statunitense.
La crisi economica è una specie di terremoto che nasce da attriti, più o meno profondi, sotto la superficie sociale. Nella presente epoca, l’impatto tra masse geopolitiche avviene a profondità rilevanti ma inizia a farsi sentire in superficie. Provocherà dei bei disastri, alla lunga, con sconvolgimenti nei rapporti di forza tra Stati. È essenziale distinguere una crisi di simile portata da quelle cagionate dalla volatilità dei titoli. Anzi, quest’ultimi sono volentieri un’arma molto peculiare da usare contro i Governi o le loro imprese strategiche. Le crisi, che spesso precedono le guerre (anche se non è scontato finisca sempre così), sono la conseguenza del conflitto intercapitalistico tra gruppi di decisori ai più alti livelli delle sfere sociali. È lo sviluppo ineguale dei capitalismi a provocare queste situazioni che devono risolversi in scontri sempre più accesi.
La grande crisi del 1929-33, che accompagnò il declino inglese, determinò l’ingresso in una fase policentrica che, a sua volta, ebbe come conseguenza la guerra mondiale, per la preminenza tra paesi e aree di paesi. Solo dopo l’ultimo conflitto si entrò in una fase duratura di stabilizzazione, fondata sul bipolarismo Usa-Urss. Questo non era un equilibrio di potere perfetto, tanto che la supremazia di Washington emerse, anche se dopo qualche lustro, per l’incapacità del blocco socialista di tenere il passo con l’avversario (occorre rifiutare la baggianata della corsa agli armamenti o l’assertività di Reagan quali motivazioni del crollo dell’Unione Sovietica, corrosasi, invece, dall’interno). In questo periodo di relativa stabilità geopolitica, non scoppiano crisi radicali, nemmeno allorché collassa la Russia e si entra in una breve epoca di monocentrismo Usa, a partire dagli anni ‘90.
Con l’estendersi dell’impero americano alle aree che rientravano nel campo nemico, principia quella narrazione ideologica, finalmente smentita dagli ultimi avvenimenti, su pace, cooperazione, governo mondiale dell’economia chiamata globalizzazione, portatrice di vantaggi per tutti i partner del consesso internazionale, unificato una volta per tutte dagli interessi commerciali e comunitari; vacuo racconto ad usum populi oramai sepolto dall’evoluzione dei contrasti mondiali presenti.
Nel ‘800, quando Londra era il centro degli scambi e della forza militare, imperversava la teoria dei costi comparati di David Ricardo, secondo la quale ogni Paese avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella vendita di merci che, per elementi naturali ed artificiali, lo avrebbero reso adatto a crescere in determinati ambiti di eccellenza, integrati nell’economia mondiale. I portoghesi, ad esempio, avrebbero scambiato ottimo vino con gli oggetti che non realizzavano in proprio, quali i beni industriali inglesi. Ma un’economia basata su processi così poveri di tecnologia non può che mettersi al rimorchio di una che esita in campi di più vasta innovazione.
Lo scopo di queste teorie è quello di giustificare la sottomissione reale, impedendo alle collettività surclassate dalla rivoluzione industriale (ieri come oggi) di fare concorrenza ai meglio attrezzati allo sviluppo, limitandosi ad essere zone di smercio dei prodotti ad alto tasso tecnologico di questi o semplici fornitori di materie prime o di altri beni frugali (anche se di lusso). Friedrich List, contraltare tedesco di Ricardo, proponeva di proteggere l’“industria nascente” teutonica, alla quale garantire il supporto dello Stato, per recuperare terreno sulle potenti forze produttive dei “First Comers”. La globalizzazione a trazione USA è la versione aggiornata del modello ricardiano di altri tempi. I periodi unipolari, in ogni caso, non durano in eterno e quello americano pare all’epilogo (un finale lento ma inesorabile), insieme al suo idealismo di supremazia “secolare” yankee. Due lustri o poco più di assoluto monocentrismo Usa e già si è aperta una fase multipolare che sfocerà, tra non molto, in un più veemente policentrismo. Questa è la più facile delle previsioni supportata dall’analisi degli eventi passati. Oggi, l’antagonista principale del Paese predominante è da ritenersi la Russia, seguita dalla Cina (gigante economico, militarmente arretrato rispetto agli altri due diretti contendenti). Altre nazioni cercano un rafforzamento approfittando dei cambiamenti in corso. È chiaro che in un mondo così movimentato si crea uno scoordinamento, visibile, prima facie, dal lato finanziario. La crisi è tornata ad incombere, con un andamento altalenante, tuttavia, il mare resterà burrascoso, con qualche breve schiarita, ancora per un pezzo. Occorre che lo scontro politico si approssimi alle sue estreme conseguenze, con sbilanciamento progressivo dei rapporti di forza tra i poli conflittuali, perché i pilastri dell’economia vadano in frantumi.
Si parla tanto del declino statunitense ma per ora, come spiegato, è molto relativo, essendo Washington a guida di un’area vasta e performante. Vi è certamente un inizio di discesa che ha imposto agli Stati Uniti una revisione strategica per arginare la detta perdita di influenza. Il conflitto in Siria (i suoi esiti poco favorevoli all’amministrazione Usa e ai suoi alleati), è la testimonianza di quanto descritto. L’unilateralità nella gestione dei conflitti, all’indomani del tracollo sovietico, è ora solo un ricordo. E per fortuna.
Per precisare ancora il nostro discorso iniziale, dobbiamo meglio spiegare il ruolo giocato dalla finanza che “copre” l’intreccio delle relazioni interdominanti nella complessiva articolazione delle formazioni particolari, inserite nella formazione globale o mondiale. Quella finanziaria è “solo” un’“interfaccia” che prende il centro del palcoscenico ma ciò che avviene dietro al sipario è ancor più decisivo. I “giochi” realmente determinanti si svolgono negli apparati della sfera politica; questi, peraltro, si “condensano” in virtù dei conflitti in cui gli attori sono coinvolti, sospinti dal flusso squilibrante della realtà. La formazione capitalistica si presenta con una “base”, la produzione di merci, che crea la massa di mezzi necessaria a confliggere (anche se questo scontro si mostra come più blanda concorrenza per il profitto); da ciò si genera, a sua volta, una sfera finanziaria che distribuisce tali mezzi, qui assume centralità il denaro, in quanto duplicato della merce (forza-lavoro e beni); le risorse generate affluiscono alle sovrastrutture politiche e culturali, dove la lotta tra agenti strategici rivela le sue mete supreme. La “sovrastruttura” politica, in questo senso, non deriva semplicisticamente dalla struttura economica della società, come si è a lungo pensato, il rapporto va persino rovesciato, sono le lotte tra agenti strategici nella prima che scuotono “la base materiale” e ne modificano spesso i presupposti, soprattutto quando l’egemonia passa da una nazione particolare all’altra.
Il capitalismo americano non è la stessa cosa di quello inglese. Il capitalismo, in realtà, rispetto a formazioni sociali precedenti, ha portato la funzione strategica all’ambito economico-produttivo. Qui essa è prorotta, per caratteristiche intrinseche al modo di produzione, in conflitti multipli tra i molteplici attori del mercato, cosicché nient’altro sembra avere lo stesso rilievo, sempre esorbitante. Invece, l’orizzonte strategico si restringe se ci si convince che tutto si risolva nella sfera economico-finanziaria; questo è il più grave errore interpretativo dei nostri giorni, quello che genera asservimento verso fantomatici meccanismi automatici come lo spread o i parametri di Maastricht. Chi accetta ciò si subordina alla finanza che opera per conto di grandi potenze e inibisce i propri spazi di manovra, le sue potenzialità strategiche da orientare al superamento della tradizionale sudditanza internazionale.
La finanza è consustanziale al capitalismo, non può essere demonizzata né eticizzata. Va contestualizzata, lasciata libera di procurare risorse a favore delle attività del Paese o ridimensionata quando diventa una quinta colonna al fianco di potenze straniere con le quali depreda le risorse nazionali. Vanno respinte al mittente certe definizioni della finanza in voga nei vecchi ambienti marxisti o in quelli di sinistra, per non dire di quelle liberali che ancora si rifanno ad inesistenti mani invisibili. Nel Capitalismo non esiste una finale preminenza di una sfera sociale sull’altra anche se, a seconda delle fasi, una di queste può prendere il davanti della scena o condizionare maggiormente le dinamiche complessive del panorama sistemico. Ovviamente, questa divisione in sfere del capitalismo (meglio sarebbe parlare di uno specifico sistema a predominanza americana, sviluppatosi insieme alla potenza e proiezione geopolitica-economica-militare Usa) è “artificiale” (ipotetico) e segue un determinato taglio della realtà ai fini di una decomplessificazione dei suoi elementi (ritenuti più importanti, sempre secondo l’epoca).
Le tre sfere in questione sono quella politico(-militare), economico(-produttivo-finanziaria), ideologico(-culturale). L’incertezza è la cifra geopolitica della nostra epoca storica. Diversamente non si può concettualizzare l’assenza di regolarità con cui si manifestano i vari fenomeni politici e i loro sviluppi concreti a livello sociale, in un’era di certificato trapasso. L’ingresso in una nuova fase di conflittualità multipolare e policentrica è il nostro inevitabile orizzonte. La fine della storia è stata smentita come la stessa globalizzazione livellatrice dei diritti e doveri collettivi, al di là delle distinzioni etniche e culturali, e la proficua cooperazione tra le nazioni (i cui organi statali si sarebbero dissolti nel governo mondiale), tutti elementi rassicuranti venuti a galla dopo la caduta dell’Urss e l’ingresso nella monodimensionalità occidentale. Sappiamo finalmente che si trattava di una forzatura ideologica, dettata dall’assoluta supremazia di “una parte” (quella vittoriosa nella Guerra Fredda) emersa trionfante dal mondo bipolare. La cosiddetta geopolitica del caos era stata innescata da una dinamica oggettiva di conflittualità, sempre operante sotto la crosta sociale, la quale, nonostante il finalismo dei vincitori, avrebbe sfaldato gli equilibri (a dominanza statunitense) ritenuti irreversibili dai vessilliferi dei poteri costituiti, aprendo un ventaglio di scelte strategiche internazionali, diramanti da questo flusso destabilizzatore, con successiva ridefinizione dei rapporti di forza tra formazioni globali e regionali.
Conflittualità tra le nazioni, il leitmotiv del futuro
Cina e Russia sono oggi i principali concorrenti degli Usa nel riassestamento del planisfero. Sono revisionisti agguerriti del vecchio ordine mondiale che entra in fibrillazione e ristagna, in primo luogo economicamente. Tuttavia, ciò è l’effetto e non la causa di tutto.
Gli economicisti hanno interpretato questo fatto come basilare, il fattore scatenante del disordine odierno. Ma si tratta, invece, di una conseguenza superficiale che segue e non precede la fine del tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) e la crescita di potenza di paesi competitori dell’America. L’età in corso assomiglia alla Grande Stagnazione che caratterizzò il quarto di secolo dal 1873-96. Detto ciò, possiamo fare dei parallelismi con la situazione attuale, dal momento in cui la superpotenza statunitense (proprio come quella inglese al calar del XIX secolo), fatica a conservare un primato mondiale che però, fondamentalmente, resta tale.
Gli Usa detengono ancora un vantaggio posizionale sui “concorrenti” ma ugualmente avanza la sregolazione del sistema internazionale, che preannuncia ben altri conflitti.
Per intanto, l’opposizione tra player geopolitici si manifesta come “guerra” dei mercati, ma quando gli scarti di potere, tra gli Usa e i suoi sfidanti, si saranno avvicinati, le tensioni assumeranno la loro precipua veste politica e militare. Prossimi a questo “stadio” la crisi risulterà irricomponibile, nessuna riforma potrà salvare un sistema superato nelle sue stesse gerarchie e (inter)dipendenze, verrà squarciato il velo di sofisticazioni economiche che rivestono l’abito delle relazioni tra le nazioni ed i nudi rapporti di forza saranno maggiormente visibili. L’epoca della grande depressione, volendo restare al paragone storico precedente, cioè quella della fine degli anni ‘20 del secolo XX, coincide con il conclamato indebolimento (e poi declino) di Londra. Questo decadimento però era cominciato da più lontano, dalla stagnazione di fine ‘800, si era inasprito con una guerra mondiale, a cui era seguita un’altra depressione profondissima e quest’ultima si era risolta, a sua volta, in una seconda guerra generalizzata che doveva mettere fine alla supremazia dell’impero inglese sul globo, a favore di Usa (nel campo occidentale) e Urss (in quello orientale). Senza essere troppo finalistici, né nella narrazione degli eventi passati (ai quali risaliamo post festum), né di quelli futuri (non escludendo, anzitempo, che gli Usa stiano andando incontro a questo destino ma nemmeno dandolo per scontato) parrebbe di essere sulla soglia di un’epoca di ulteriore scoordinamento, i cui risvolti sono intuibili con approssimazione ma non dettabili con certezza. La storia non si ripete allo stesso modo, per quanto ricorsiva sia. La conflittualità tra nazioni e rispettivi gruppi dirigenti negli apparati di Stato sarà il leitmotiv dei prossimi anni, lontana da infingimenti multilaterali. Il policentrismo è inevitabile approdo, da esso sorgeranno altri equilibri (un nuovo monocentrismo) ma non prima che le nazioni se le siano date di santa ragione per primeggiare.
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Articolo a cura di Gianni Petrosillo
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Articolo gratificante…anche se tosto!
di livello universitario. Da leggere con calma, dividendo i paragrafi e schematizzandolo quasi come una mappa concettuale. Insomma, l’ho dovuto sezionare e fare a pezzetti… (si chiama”studiare”).
ma come sempre accade con la maggioranza dei vostri articoli, la fatica è premiante! Complimenti a voi redazione che gli articoli li scegliete…
Cito: ”..inesistenti mani invisibili..: la mano invisibile è quella dei cabalisti, insieme ad altri attori, ovviamente. La tendenza al caos ‘pilotato’ è evidente ed è la ragione per la reazione di Cina e Russia: parecchi non notano questa tendenza perchè ancorati all’ idea della razionalità del ‘reale’ … Fase intermedia è il multipolarismo, anch’ esso a ben vedere sequela del mondialismo ma ripartito su più soggetti e più regole: la mediazione dovrebbe attenere alla sfera del diritto internazionale per esser efficace tra gli attori stessi… ma sappiamo e vediamo che così non è, anzi l’attore principale, ancora gli USA, proprio perciò fa e disfa trattati, non attribuendo ad essi alcun valore cogente: la mancanza di ‘razionalità’ ( regola principale: tutto deve valere per tutti i contraenti e questo deve esser da loro osservato ) in un punto essenziale delle relazioni internazionali priva gli stessi USA di forza cogente e condivisa nelle loro decisioni. America First è anche America alone e America weak ( perdonate il mio english maccheronico | ). Probabilmente, infine, per dare stabilità al nostro martoriato mondo, sarebbe necessario un adeguamento delle regole del gioco, in primis una riforma realistica e rapida dell’ ONU: ma è ‘pensabile’ in un contesto di violazione delle regole assistita da un ‘discorso’ volutamente della ‘doppia’ regola ? L’ impasse non può esser decisa che da un atto di forza che spezzerà la narrativa compiacente dei ‘buoni’.