Vista dall’Asia, l’orripilante crisi europea sembra una lontana galassia. Così, mentre tornavo dal Regno di Mezzo in quello stagnante assortimento di disfunzioni saccheggiato dall’austerità, conosciuto come NATOstan, ho deciso di fermarmi a mezzavia per una pausa di riflessione nella Città delle Città.
ISTANBUL, 31 dicembre (Sputnik). Non avevo altro impegno che quello di collegare il futuro (il secolo euroasiatico) con il passato (il sogno scalcinato di una Unione Europea) passando per la dimora preferita di Dio, la Città delle Città; Costantinopoli, la nuova Roma. Niente altro che un pellegrino dell’Eurasia che nel suo cammino si impregna degli aromi provenienti dai Balcani, dall’antica e gloriosa Tracia, dal Mar nero e dal Mar di Marmara attraverso il Bosforo e dalle periferie caotiche e brulicanti, dove torri scintillanti coesistono con capanne fatiscenti.
La mattina si trattava di stare immersi fra mito e storia, nel roboante silenzio secolare di un sonno pietrificato. Istanbul dovrebbe essere letta come una pergamena, al di là di astuzie metodologiche e ornamenti stilistici. Jean Cocteau scrisse che Costantinopoli era una città nata nella porpora, una città di sangue, tramonti e fuochi. Casanova scrisse che quando Costantino arrivò dal mare, sedotto dalla vista di Bisanzio, annunciò: “Qui c’è la capitale dell’impero del mondo”. Così, elegantemente, lasciò una volta per tutte la sede del vecchio impero, Roma.
Portalo al ponte
La Turchia, sotto il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), ha fatto di tutto per posizionarsi come punto di incontro cruciale fra Est ed Ovest. Così, mentre mi accingevo al mio pellegrinaggio, non potevo fare a meno di ricordare come, al culmine della Belle Epoque, tedeschi e russi avessero progettato una linea ferroviaria da Berlino a Mosca che sarebbe dovuta terminare sia sulla costa siberiana del Pacifico che a Pechino. Adesso Pechino sta per concretizzare questo sogno inserendolo nel vasto progetto della nuova Via della Seta, una super Trans-Siberiana ad alta velocità parallela alla ferrovia ad alta velocità Trans Centro-Asiatica il cui nodo chiave sarà Istanbul.
Dopo aver finalmente attraversato il ponte sul Bosforo ho visto una caterva di Kemalisti in crisi e forse anche qualche jihadista in incognito. Per oltre sei secoli l’Impero Ottomano è riuscto a tenere salda l’unione del Sunnismo mediterraneo con l’Umma mediorientale, tenendo a bada l’Impero Sciita persiano, metabolizzando le istituzioni tradizionali ereditate dai Bizantini, e mantenendo un giusto equilibrio fra fede ed etnicità, rispettando le comunità religiose autonome – millet – e le prerogative dei soggetti non mussulmani – dhimmi.
La frammentazione di questo impero multiculturale e plurinazionale ha portato ad un processo di modernizzazione e laicizzazione che ha fatalmente fatto nascere una reazione fondamentalista; questa è l’origine di quell’instabilità e di quelle violenze praticamente irreversibili che caratterizzano oggi l’intera regione; qualcosa che il Pentagono utopicamente ha definito “l’arco dell’instabilità”.
Tutto, dalla tragedia palestinese all’Iraq, dai plutocrati wahabiti del Golfo Persico al califfato fasullo noto come ISIS/ISIL/Daesh, è un avanzo della prima guerra mondiale, dell’ossessione delle potenze occidentali di sopprimere ad ogni costo l’esperieza ottomana di governo imperiale, sovranazionale. E’ stato l’Occidente a creare “l’arco dell’instabilità”, più di un secolo fa.
La gloria del Neo-Ottomanesimo
Questa volta non sono andato in Asia. E’ stata invece l’Asia a venirmi incontro sulla spiaggia europea quando a mezzogiorno ho incontrato ad Eminonu il mio amico Can Emritan, che vive sulla sponda asiatica. E’ stato lui a diventare il mio Virgilio, quando mi ha condotto dal miglior locale centenario dove si gusta il pesce del Mar Nero al miglior baklava (dolce tradizionale NdT) del Karakoy Gulluoglu (famoso hotel NdT), dal meglio dei panorami della Istanbul europea ai vicoletti dove ti sembra di essere a Parigi, dal Great London Hotel che i turchi chiamano Buyuk Londra (che ospitò Ernest Hemingway nelle vesti di corrispondente straniero durante la guerra greco-turca del 1922) ad un gioiello unico: una sontuosa chiesa armena nascosta in un mercato del pesce.
Abbiamo rievocato i fantasmi dei Russi Bianchi dei primi anni ’20 e abbiamo rivissuto la storia di Gurdjieff, lo straordinario mistico esoterico che fu adepto della confraternita derviscia Naqshbandiyya a Bukara. Non abbiamo però incontrato nessun derviscio danzante, nel 1924 Kemak Ataturk, nel corso delle sue riforme secolaristiche ci andò giù pesante e i dervisci sopravvissero solo come “museo di letteratura diwan (collezione di poemetti di un singolo autore NdT)”, come nella poesia classica ottomana.
Naturalmente il punto focale della nostra conversazione è stato il presidente Erdogan, che Emritan chiama il Sultano del Kitsch. Così tante cose fatte alla grande, dall’Islamismo tradizionale all’Islamo-Ottomanesimo, il tutto impregnato di nostalgia per l’età dell’oro imperiale. Gestendo poi tutto il suo partito (l’AKP) come se fosse un enorme racket per la speculazione immobiliare; dopo tutto “spinta all’urbanizzazione”, proprio come in Cina ma al modo turco, vuol dire urbanizzare le classi sociali più povere direttamente dalle campagne dell’Anatolia, la base politica dell’Islam conservatore.
Erdogan, un critico feroce dell’islamofobia dilagante in tutto l’Occidente, dopo i fatti di Charlie Hebdo a Parigi, mette in guardia contro un possibile “scontro di civiltà”. Ha ragione da vendere, dal momento che il medesimo concetto fu messo nero su bianco da quell’ etnocentrico, xenofobo e razzista di Samuel Huntington, allora membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, concetto ancor più in auge dopo i fatti dell’11 settembre: in caso di dubbio, dare la colpa all’Islam.
Il mio pellegrinaggio era cominciato in Santa Sofia prima dell’alba e aveva avuto termine la sera a Piazza Taksim, diventata adesso uno sconfortevole quadrato di cemento, che non invoglia a rifare l’Occupy Istanbul (del 2013, NdT). Nel 1934, Kemal fece trasformare Santa Sofia in un museo, per onorare le gloriose tradizioni bizantine ed ottomane. Santa Sofia ritornerà fra breve ad assere una moschea, appena sarà terminato il restauro del Monastero di Studion, che fu esso stesso una moschea dal 1453 al 1920.
Questa potrebbe essere un’altra manifestazione del neo-Islamismo che avanza, o un fulgido esempio di quello che Zygmunt Bauman chiamò “regionalizzazione della politica”, la politica secolarista ridisegnata dalla certezza della religione.
In qualunque caso, probabilmente vincerà il Sultano ed otterrà quello che vuole. Ha già rivoltato come un guanto la NATO; aggiudicandosi con Mosca il pingue contratto del gasdotto Turk Stream, ha rispedito al mittente un’alleanza creata per combattere l’URSS e mantenuta in vita contro la Russia. Il tutto finanziato dalla Sberbank (la più grossa banca russa NdT), insieme al terzo aeroporto di Istanbul e ad una centrale nucleare ad Akkuyu.
Il Turk Stream ha fatto chiaramente vedere come la Turchia sia sulla strada per diventare il primo punto d’incontro fra Eurasia e NATOstan, alle proprie condizioni però. E la Città delle Città è destinata a rimanere, e non potrebbe essere che così, il gioiello della corona neo-ottomana.
Pepe Escobar
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Traduzione a cura di Mario per sakeritalia.it
Articolo apparso su Sputnik il 28/01/2015
questo articolo mi era sfuggito ed ora ,che lo leggo dopo più di un anno, osservo che bisognerebbe interpretare i fatti dopo qualche tempo per liberarci delle scorie delle emozioni e dei rancori verso coloro che distruggono i nostri riferimenti geo-politici.
Penso che l’autore,dopo tanto tempo potrebbe riconoscere che su Erdogan si è preso un abbaglio e non solo coloro che lo reputavano una equilibrata controparte ,come ad esempio Putin che oggi lo detesta cordialmente.
Erdogan, e qui non temo smentite, è un bandito per ora fortunato, perché coloro che lo hanno issato sul tronetto turchesco non hanno mai avuto l’opportunità di conoscere le sue malefatte che vengono occultate dai media per non inimicarsi un soggetto pericolosissimo anche quando opera all’estero.