Il ponte di Genova che è crollato il mese scorso uccidendo 43 persone era di proprietà privata, ma un fattore chiave che ha rallentato i fondamentali investimenti infrastrutturali in Italia negli ultimi anni è responsabilità della UE, riporta Andrew Spannaus.
Poco più di un mese fa, il 14 agosto, un ponte stradale è crollato nel centro della città italiana di Genova, uccidendo 43 persone, danneggiando le aree abitate sottostanti e interrompendo una grande arteria di traffico che collegava i due lati della città. Il ponte era stato costruito negli anni ‘60, con una tecnica costruttiva che era stata criticata da alcuni esperti nel corso degli anni, e il suo decadimento era ovvio; aveva già subito varie riparazioni, e per questo autunno era previsto un nuovo ciclo di manutenzione straordinaria.
La manutenzione non è arrivata in tempo. Durante pesanti piogge nella zona, automobili e camion sono caduti da un’altezza di 150 piedi [circa 45 metri], causando morti e feriti e segnando una tragedia nazionale che ha attanagliato il paese.
Perché è successo? La compagnia autostradale italiana è stata privatizzata nel 1999, e sono state quindi garantite delle concessioni per gestire le strade. Il concessionario più grande (con circa il 50% della rete) è attualmente Autostrade per l’Italia S.p.A., controllata dalla famiglia Benetton, fondatrice dell’omonimo marchio di moda. Essa ricava un bel profitto dai pedaggi autostradali, tra i più alti in Europa, ed è responsabile della manutenzione e degli investimenti, che sono rimasti stagnanti anche se i pedaggi sono più che raddoppiati negli ultimi 25 anni.
La difesa di Autostrade è che, anche se erano state sollevate preoccupazioni sul ponte, non vi erano indicazioni di un pericolo imminente. È una difesa debole, considerando che a Genova il ponte è stato oggetto di dibattito pubblico per anni, con alcuni che lo vedevano come “un disastro in attesa di accadere”. Dopo la resistenza iniziale, Autostrade alla fine ha risposto alla pressione pubblica assegnando 500 milioni di euro per risarcire le famiglie delle vittime e ricostruire il ponte.
La prima risposta del governo populista italiano guidato dal Movimento Cinque Stelle (M5S) e dalla Lega, è stata quella di incanalare la rabbia contro la compagnia privata, usando argomentazioni popolari contro le politiche neoliberali di privatizzazione e tagli al bilancio. Hanno ragione, naturalmente, a dire che il disastro è avvenuto sotto l’egida di una società privata che afferma di essere più efficiente del settore pubblico. Il sistema autostradale italiano funziona abbastanza bene, ma non si può ignorare la necessità di aggiornamenti per le parti delle infrastrutture che sono state costruite durante il boom economico degli anni ‘50 e ‘60, che hanno raggiunto la fine della loro vita utile.
Tuttavia i pedaggi sono già alti, e il concessionario privato vuole garantire i suoi profitti; chi pagherà tutto il lavoro che deve essere fatto?
I due vice primi ministri del governo italiano, Luigi Di Maio del M5S e Matteo Salvini della Lega, guidano la carica contro Autostrade. Di Maio ha minacciato di revocare la concessione e rinazionalizzare le autostrade, anche se la resistenza istituzionale è stata forte. Salvini, invece, ha puntato immediatamente il dito sui vincoli di bilancio dell’Unione Europea (UE): “Gli investimenti che salvano vite umane… non devono essere calcolati dalle rigide e fredde regole imposte dall’Europa”, ha affermato il 15 agosto.
L’UE ostacola i finanziamenti per le infrastrutture
Il disastro a Genova non è stato una conseguenza diretta dei tagli al bilancio pubblico, dal momento che la sezione autostradale è gestita da una società privata, come hanno fatto notare i politici centristi e molti dei principali media. Ma la bordata di Salvini ha individuato una questione essenziale per l’Italia – e per molti altri paesi europei – oggi: sono necessari ingenti investimenti pubblici, ma i vincoli di bilancio dell’UE li impediscono.
Il governo italiano è responsabile per il benessere pubblico, ma non è in grado di garantirlo. Ci sono molte ragioni per questo, a cominciare dal massiccio debito pubblico del paese – il 131% del PIL, tra i più alti del mondo – e dall’inefficienza della spesa pubblica. Le procedure per le gare d’appalto sono lente e complicate, e la burocrazia intricata significa che perfino il denaro stanziato viene spesso lasciato inutilizzato per anni.
Si tratta di problemi a lungo termine che richiedono riforme legislative e la riorganizzazione delle priorità. L’attuale governo ha promesso di razionalizzare il sistema delle gare d’appalto e anche di dirigere i fondi disponibili verso i progetti più urgenti.
Tuttavia, il fattore chiave che ha rallentato gli investimenti infrastrutturali di base in Italia negli ultimi anni è stato il regolamento del bilancio dell’UE, che dopo aver inizialmente impostato un disavanzo massimo del 3% del PIL, ora rende obbligatorio il completo equilibrio del bilancio, sebbene i paesi possano muovere gradualmente verso quell’obiettivo.
Il governo italiano è costantemente sotto pressione per tagliare la spesa pubblica al fine di avvicinarsi a un deficit zero ogni anno. Questo nonostante il fatto che l’Italia abbia gestito un avanzo di bilancio primario (vale a dire prima dell’interesse sul debito pubblico) praticamente ogni anno dal 1992. Gli investimenti pubblici sono diminuiti continuamente nel corso degli anni; di oltre un terzo a livello nazionale, fino al 2% del PIL, e di almeno la metà negli ultimi dieci anni quando si parla dei governi locali.
Ciò è avvenuto in particolare perché, al fine di soddisfare i criteri di bilancio dell’UE, l’Italia ha adottato qualcosa chiamato “Patto di Stabilità Interno”, per accompagnare il “Patto di Stabilità e Crescita”. La versione interna utilizzava i bilanci di comuni, province e regioni per aiutare a raggiungere gli obiettivi del budget nazionale. In sostanza, alle autorità locali è stato chiesto di tagliare le spese anche se avevano soldi in banca, in modo che il governo di Roma potesse contare su quei fondi per soddisfare le norme dell’UE.
La dura austerità attuata dal 2011 al 2014 ha reso le cose ancora peggiori. Dopo che lo spread tra obbligazioni italiane e tedesche sui mercati finanziari ha toccato il picco nell’estate del 2011, che ha portato a timori di una catastrofe finanziaria per l’Italia e il sistema Euro nel suo complesso, i governi tecnocratici si sono rapidamente mossi per tagliare ancora di più le spese.
Questa politica, dettata dalla Banca Centrale Europea e dalla Commissione Europea e attuata entusiasticamente dai neoliberisti in Italia, ha portato a un vero disastro. Il risultato è stato un calo del 25% nella produzione industriale e un forte aumento della disoccupazione e della povertà. E non sorprendentemente – almeno per le persone razionali – la contrazione economica ha finito per rendere il debito pubblico ancora più grande.
Chi dovrebbe decidere?
Quando, dopo il disastro del ponte a Genova, il governo ha promesso di ricostruire le infrastrutture stradali del Paese, a prescindere dal costo, la reazione è stata rapida. Da un lato, funzionari dell’UE come Günther Oettinger, Commissario al Bilancio, hanno negato che l’Europa sia responsabile della mancanza di investimenti in Italia e, dall’altro, i mercati finanziari hanno aumentato rapidamente il premio di rischio sui titoli di Stato italiani.
La domanda è: perché i mercati finanziari o i tecnocrati dovrebbero decidere se le strade italiane sono sicure? Il governo populista è stato eletto grazie alla promessa di sfidare le politiche di austerità dell’UE, e l’accordo di coalizione tra M5S e la Lega stabilisce due priorità principali in questo campo: aumentare gli aiuti pubblici ai poveri, attraverso una forma del reddito universale, e semplificare e ridurre le alte aliquote fiscali del paese, per aiutare sia le imprese che i privati.
La lotta principale nel governo in questo momento è se in realtà queste promesse verranno attuate, nonostante la pressione ad attenersi ai criteri di bilancio. Il Ministro dell’Economia Giovanni Tria sembra intimidito dalle pressioni dei mercati obbligazionari e chiaramente teme l’antagonismo dell’UE. Di Maio e Salvini insistono nel mantenere le loro promesse, promuovendo l’argomentazione eretica, ma vera, che l’investimento produttivo produce effettivamente crescita. Qualcuna delle parti coinvolte dovrà pur cedere. La speranza è che non sarà un altro ponte.
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Articolo di Andrew Spannaus pubblicato su Consortium News il 27 settembre 2018.
Traduzione a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.
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