Abbiamo letto tuoi giudizi molto severi su Samuel Huntington. In realtà ci pare che la possibile critica ad Huntington sia più di merito che di metodo. E’ discutibile che Europa Occidentale, Stati Uniti ed Australia appartengano ad un’unica “civiltà nordatlantica”. Tuttavia la concezione di Huntington pare adattarsi assai bene alla crisi Ucraina e la stessa idea di “sfera di civiltà russa” e di multipolarismo organizzato intorno a “stati guida” espressa da Putin sembra riecheggiare alcune concezioni Huntingtoniane. Del resto alcuni conservatori statunitensi come Pat Buchanan hanno espresso simpatia per la posizione politica di Putin. Non credi che Huntington faccia riferimento ad un milieu diverso da quello di Fukuyama?

– Paolo Borgognone –

Huntington rappresenta, con la sua teoria relativa allo “scontro delle civiltà”, il versante “destro” del mondialismo e dell’atlantismo. La differenza tra il milieu di Huntington e quello di Fukuyama sta nel fatto che il primo era un globalista pessimista, mentre il secondo è un globalista ottimista. Huntington sottolineò, nel suo libro Lo scontro delle civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, i rischi cui si esponevano i sostenitori della “fine della Storia”, ossia i liberali di sinistra persuasi dall’idea che lo smantellamento dell’URSS avrebbe posto le basi politiche, economiche e sociali per il dispiegarsi, a livello globale, del modello socio-politico liberaldemocratico anglosassone, declinato in chiave postmoderna.

Huntington ha teorizzato la transizione dallo “stato-nazione” alla “civiltà”, sancendo il passaggio da una confrontazione tra blocchi strutturata come scontro ideologico (liberalismo occidentale vs comunismo sovietico) a una confrontazione tra blocchi strutturata come scontro appunto di “civiltà” e di “culture” (“neoimperialismo americanocentrico” vs “resto del mondo”). In questo senso, si deve certamente attribuire all’elaborazione huntingtoniana una indiscutibile dose di realismo, di “sano realismo conservatore”. Huntington espose una formulazione teorica geopolitica che non poneva in discussione la vocazione occidentale al dominio planetario. Egli affermava che questo dominio, basato sul primato della “civiltà occidentale” come sorta di “unica civiltà”, avrebbe dovuto fronteggiare ostacoli riconducibili al risorgere, nell’era postmoderna, di forme premoderne di civiltà, come quella islamica.

Il geopolitico eurasiatista Aleksandr Dugin ha dichiarato, circa le tesi di Huntington: «Fukuyama era un globalista ottimista. Huntington era un globalista pessimista che analizza i rischi e misura i pericoli. Si può trarre una lezione eurasiatista dalle sue analisi. Huntington ha ragione quando dice che le civiltà riappaiono ma ha torto di affliggersene». Dugin afferma infatti che il compito della geopolitica eurasiatista è il riorientamento dell’ostilità, da parte delle civiltà “altre” rispetto a quella occidentale, nei confronti degli Stati Uniti, abbandonando ogni “scontro di civiltà” interno alle suddette “civiltà altre” (ad esempio, la guerra intestina, fitna, opponente sunniti e sciiti nell’ambito del “mondo islamico” e la guerra civile interna alla “civiltà slava” in Ucraina). In questo senso, prosegue Dugin, «se deve esserci uno “scontro” delle civiltà,  bisogna che sia uno scontro tra l’Occidente e il “resto del mondo” […] – uno scontro between the West and the Rest». Dugin conclude affermando che «l’eurasiatismo è la formula politica che conviene a questo “resto”: We are the Rest».

Huntington era inoltre un atlantista convinto, un aperto sostenitore della necessità del rafforzamento dell’alleanza transatlantica Usa-Ue. Riassumendo, si può affermare quanto segue: le tesi di Fukuyama, relative al dominio globalista della liberaldemocrazia e della società tecno-mercantile, devono essere rifiutate come il chiliasmo rivoluzionario e utopistico messianico dei fautori di un anti-impero planetario monoclassista neoborghese unificato alla forma mentis della new global middle class americanocentrica; le tesi di Huntington, relative allo “scontro delle civiltà”, devono essere, per così dire, rovesciate, reinterpretate dunque in un’ottica eurasiatista e non euro-atlantista. Mi preme affermare come il rifiuto debba essere netto anche nei confronti delle tesi dei cosiddetti “altermondialisti”, da Toni Negri ai New Global, i quali, come afferma Dugin, «criticano giustamente le malefatte e i difetti più evidenti della mondializzazione, ma continuano comunque ad aderire all’ universalismo occidentale, che si accontentano di teorizzare in senso contrario».

In definitiva, sia Huntington, sia Fukuyama, sia Toni Negri configurano le rispettive “tesi forti” come perfettamente interne al postmoderno. Tutte e tre queste “tesi forti” sono interne alla logica della mondializzazione centrata sulla dinamica di “flessibilizzazione integrale” delle masse e sulla disarticolazione delle forme tradizionali di organizzazione politica e sociale. Non sono forse le postmoderne moltitudini biopolitiche flessibilizzate e globalizzate gli attori politici teorizzati da Negri come sorta di “avanguardia rivoluzionaria” di una “sollevazione colorata” (o “primavera araba”) su scala mondiale? Non è forse l’antropologia del desiderio capitalistico e consumistico illimitato il motore ideologico che, a livello di più o meno spiccata consapevolezza da parte degli interessati, muove l’azione “controrivoluzionaria” delle citate moltitudini “comuniste” globalizzate?

In tal senso, non è per nulla irragionevole considerare la geopolitica (e la filosofia) eurasiatista (da Konstantin Leont’ev a Nikolaj Trubeckoj, da Lev Gumilev ad Aleksandr Dugin, passando per Dragos Kalajic e Carlo Terracciano, per sintetizzare al massimo) come un antidoto al postmoderno. Mi rendo conto che tali argomentazioni possano riscontrare l’ostilità da parte di coloro i quali, segnatamente a “sinistra”, perseverano e si ostinano a interpretare la geopolitica come una «pseudo-scienza nazista», evitando di considerare quali legittime parti in causa del dibattito scientifico i sostenitori della prospettiva eurasiatista, spesso calunniati come espressione del radicalismo di destra declinato in versione russa. Ma in tal modo, ossia rifiutando addirittura il confronto agli eurasiatisti, si finisce per legittimare l’esistenza esclusivamente delle “tesi forti” (Huntington, Fukuyama e Negri) di derivazione liberale, ossia di tre tesi culturalmente e politicamente interne alla logica globalista del capitalismo assoluto!

Non ha infatti alcun senso ripetere ostensivamente la bontà storica di un sistema di relazioni internazionali centrato sul «multipolarismo» e negare al contempo la necessità dell’integrazione eurasiatica perché non potrà esserci alcun multipolarismo effettivo al di fuori dell’innesco di un processo di riunificazione dello spazio geopolitico ex sovietico e di una solida alleanza tra questo spazio geopolitico, un’Europa emancipata dall’attuale stato di semi-colonia degli Usa, la Cina, l’India, il mondo islamico liberato dal terrorismo wahhabita di complemento atlantico e il continente latinoamericano.

Demonizzando, calunniando e delegittimando acriticamente come «estremisti di destra»[1] i sostenitori della geopolitica eurasiatista, ricorrendo peraltro a schemi ideologici di quarant’anni fa, ossia caratteristici di un mondo caratterizzato da una confrontazione ideologica tra blocchi basata sullo scontro liberalismo anglosassone vs comunismo sovietico, nel 1991 venuta meno in luogo di una confrontazione geopolitica tra blocchi fondata sullo scontro atlantismo postmodernismo vs eurasiatismo, si rimanda sine die l’urgenza storica della formulazione e del consolidamento dell’alleanza geopolitica tra il “resto del mondo” in funzione di contraltare al dominio dell’iperpotenza nordatlantica statunitense.

Un’immagine molto indicativa di come tale alleanza anti-egemonica tra il “resto del mondo” può effettivamente sussistere, è quella relativa alla presenza, nel marzo 2013, al catafalco del defunto presidente venezuelano Hugo Chavez, del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko e dell’allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Due esponenti politici di cultura euroasiatica, difficilmente etichettabili in base alla rodata dicotomia storica otto-novecentesca destra/sinistra, rendevano omaggio a un leader socialista, antimperialista e patriottico, esemplificando così, anche a livello simbolico, l’effettiva potenzialità non solo geopolitica, ma anche più propriamente culturale, della auspicabile coalizione tra il “resto del mondo” in funzione anti-egemonica.

[1] Cfr. come esempio della strategia di denuncia mediatica e politica dell’eurasiatismo quale sinonimo di “radicalismo di destra”: A. Umland, Post-Soviet “Uncivil Society” and the Rise of Aleksandr Dugin. A Case Study of the Extraparliamentary Radical Right in Contemporary Russia, Ph.D. in Politics, University of Cambridge, 2007.

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