L’Unione Europea è oggi considerata da molti un fattore di prevaricazione e di dominio. Tuttavia ci ricordiamo cosa c’è stato prima: secoli di guerre fratricide fra gli stati nazionali. E’ possibile rivalutare l’elemento nazionale senza precipitare in una spirale di conflitti?

– Paolo Borgognone –

Questa è più o meno la valutazione di Noam Chomsky, che in Capire il potere affermò: «Ritengo che in ultima analisi sarebbe necessario rompere il sistema degli stati nazionali, ormai impraticabile. Non è necessariamente la forma naturale di organizzazione dell’umanità […]. Credo sia necessario sviluppare altre forme di organizzazione sociale, peraltro non difficili da immaginare […]. Una pianificazione sociale razionale condotta da persone affidabili che rappresentino tutta la popolazione, non solo le élite degli affari»[1]. Entro quali spazi e limiti stabiliti dal diritto internazionale dovrebbe attuarsi questa non meglio precisata «pianificazione sociale razionale», portata avanti da altrettanto non meglio identificate «persone affidabili» slegate dalle élite oligarchico-capitaliste, se non nell’ ambito di quella che Chomsky giustamente definisce l’«invenzione europea moderna»[2] degli Stati nazionali?

Schematizzazioni a parte, un dato di fatto è innegabile: l’odierno capitalismo speculativo globalizzato, esattamente come le utopie messianiche degli anarchici, mira all’ estinzione degli stati nazionali, soprattutto di quelle forme organizzative, politiche o statuali, considerate quali espressione di radicale dissenso nei riguardi dell’incedere travolgente, distruttivo e unificante della globalizzazione capitalistica americanocentrica. Non credo che gli Usa rinunceranno mai alla propria forma statuale organizzata ma non ho dubbi che accoglierebbero con favore lo scioglimento, su linee confessionali, politiche o etniche, dell’Iran, della Cina, della Federazione Russa, del Venezuela, ecc.

Allo stesso tempo, credo che la stessa «democrazia americana» non sia rappresentata da uno Stato-Nazione strutturato secondo i moderni presupposti di sovranità politica, territoriale, economica ed elettorale, bensì da un postmoderno e incessante conflitto intercapitalistico interno, riflettentesi a livello globale sotto il nomignolo giornalistico di “libero mercato internazionale” (cui ogni altra forma di vita deve indefettibilmente sottomettersi, pena la punizione del bombardamento “umanitario”, dell’embargo “terapeutico” e della “rivoluzione colorata”) svincolato dai “lacci e lacciuoli” simboleggiati da determinati pubblici poteri statali.

In altre parole, non considero affatto gli Usa uno Stato-Nazione nel senso moderno del termine, ma un melting pot teatro di conflitti intercapitalistici che abbozzano un tentativo di compromissoria risoluzione politica ogni quattro anni, al momento delle elezioni presidenziali. Tornate di voto spacciate dai media aziendali come il più nobile e radioso esempio terrestre di partecipazione collettiva a un rito politico “democratico”, in realtà teatro di compromesso armato tra settori oligarchici in conflitto tra essi dietro la facciata televisiva di un’esibizione pubblicitaria a uso e consumo dell’attenzione mediatica delle estasiate opinioni pubbliche euro-atlantiche. Per cui, gli Usa sono il più esplicito esempio geopolitico, economico e socio-culturale di come i poteri privati oligarchici (Global class) abbiano completamente svuotato il ruolo degli Stati nazionali come regolatori e mediatori delle dinamiche di riproduzione culturale e sociale interna. E lo sono dal momento stesso della loro costituzione perché gli Usa nascono a seguito di una serie di rivolte di proprietari avidi di profitti privati esentasse nei confronti di un potere (la Gran Bretagna di Giorgio III) percepito appunto come “oppressore” in quanto intento nel rivendicare i propri diritti al pagamento delle pubbliche imposte.

Non vi è nulla di democratico e molto di liberale e di proprietario negli eventi storici che condussero alla formazione degli Stati Uniti d’America. Detto questo, considero di riflesso necessario il permanere degli Stati nazionali sovrani come fattore di contraltare organizzato al dominio di un capitalismo assoluto e totalitario, il cui unico elemento in qualche modo riconducibile al tradizionale ruolo dei poteri statali è il keynesismo militare Usa, utilizzato quale braccio armato per l’esportazione, su scala planetaria, di detto capitalismo. Valuto l’attuale neoimperialismo americanocentrico come la prosecuzione postmoderna del nazionalismo borghese, espansionista e colonialista, ottocentesco e novecentesco (fascismo storicamente esistito, o fascismo di destra) e pertanto plaudo agli Stati nazionali nel momento in cui fungono, attraverso le loro strutture economiche, politiche, militari e mediatiche, come fattore di resistenza al dispiegarsi di tale epidemia neocoloniale.

In più, facendo idealmente mie le parole pronunciate nel 2004 da Costanzo Preve, sono «giunto […] all’idea della positività delle differenze fra culture, lingue e stili di vita, ed avendo abbandonato l’idea veterocomunista della positività di un monoclassismo proletario universale da imporre al mondo intero sotto forma di ateismo di stato, partito unico, filosofia unica ed arte unica»[3], non ho alcuna difficoltà ad accettare come elementi di valore le scelte identitarie dei popoli relativamente alle forme politiche, sociali, culturali e religiose di cui dotarsi, se queste scelte identitarie possono fungere da contraltare all’ estensione, su scala globale, della forma mentis omologatrice dell’american way of life.

Considero legittima la preoccupazione di chi teme che un possibile “risveglio nazionalistico” dei Paesi europei possa condurre a conflitti tra Stati sul modello delle guerre moderne e contemporanee ma solo in linea teorica perché ritengo che il termine “nazionalismo” (inteso nell’accezione mediatica corrente, anche a livello di pubblicistica “colta”) non sia indicato per connotare l’esigenza storica della costituzione di movimenti di liberazione nazionale, a vocazione anti-egemonica e sovranista, ma non etno-nazionalista e sciovinista, in Europa e in ogni angolo del globo sottoposto a dominazione neocoloniale.

Personalmente mi considero tutto fuorché un “nazionalista italiano” o un sostenitore del “patriottismo democratico” di azionista ascendenza, una retorica funzionale al mantenimento dello status quo geopolitico e socio-economico interno, veicolata ogni due per tre da “garanti delle istituzioni” atlantiche come Ciampi e Napolitano, né un “europeista” à la Monti, Letta e Renzi, ma un patriota dell’idea eurasiatista fondata sull’integrazione geopolitica continentale euro-russa (l’Europa da Brest a Vladivostok). Una simile ipotesi, attuata nel rispetto delle sovranità politiche, culturali ed economiche dei singoli Stati contraenti, non può che escludere ogni tentazione sciovinista e imperialista dei Paesi europei. Naturalmente, so che si tratta di uno scenario futuribile. Uno scenario però, allo stesso tempo, ineludibile, perché è chiaro che il “sovranismo” di per sé non conduce da alcuna parte, visto che nessuno Stato, da solo, può far fronte alle “sfide” opposte dalla globalizzazione americanocentrica. Occorre semmai transitare dal recupero della sovranità dello Stato-Nazione in funzione anti-egemonica per arrivare al traguardo dell’Unione Eurasiatica, ma non ripiegare sullo Stato-Nazione come finalità politica esclusiva.

Quando dico recupero della sovranità nazionale in funzione anti-egemonica, intendo affermare che potrà esserci sovranità nazionale solo quando l’ultimo soldato statunitense avrà lasciato l’Europa e quando i Paesi europei aderenti alla Nato avranno decretato la propria fuoriuscita da detta coalizione militare neocoloniale a guida yankee. La tappa intermedia sulla via dell’integrazione eurasiatica come alternativa sia alla Ue quale progetto neocoloniale transatlantico sia come “ipotesi eurocentrica terzaforzista” passibile a sua volta di pulsioni revansciste, espansioniste e coloniali, non può che risiedere nel recupero della sovranità politica, economica, monetaria, militare e culturale degli Stati europei nei confronti del nominato progetto transatlantico neoliberale detto Unione europea. Pertanto, considero il “sovranismo anti-egemonico” a vocazione patriottica (una sorta di adattamento al XXI secolo del gaullismo o del peronismo), per quanto politicamente non privo di elementi di criticità e di contraddizione, anche piuttosto evidenti, assai diverso dal nazionalismo otto-novecentesco, laddove detto “sovranismo” tende a configurarsi come unitario e pluralistico fattore di resistenza all’imperialismo americanocentrico odierno e non come tentativo di riprodurre, in sedicesimo, mentalità e stereotipi reazionari propri della più rozza tradizione politica dell’estrema destra localistica e post-industriale eurocentrica (sciovinismo etno-nazionalista delle piccole patrie, “sciovinismo del benessere” di reaganiana ascendenza e così via).

[1] N. Chomsky, Capire il potere, Net, Milano, edizione 2007, p. 388 e 392.

[2] Ivi, p. 388.

[3] Fonte: http://www.comunismoecomunita.org/?p=4215, cit.

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