Alcuni gruppi umani sono stati in passato (e sono ancora oggi) pesantemente discriminati dalle “istituzioni tradizionali”. Pensiamo alle minoranze etniche, alle donne, agli omosessuali. E’ chiaro che la causa dei diritti civili viene oggi strumentalizzata dai cantori del neoliberismo. Tuttavia, nel momento in cui noi tentiamo di proporre un modello “altro”, un modello che dovrebbe consentire una alternativa alla globalizzazione capitalista, il nostro compito è offrire uno spazio ed una dignità anche a queste comunità. Come si concilia la riscoperta delle identità con la lotta alla discriminazione?

Nell’epoca del capitalismo assoluto a essere socialmente e politicamente discriminati sono i gruppi sociali che tendono a riaffermare il primato delle identità collettive “rigide” (nazionali, di classe, di genere) nei confronti del processo di flessibilizzazione consumistica delle identità, ossia della manipolazione pubblicitaria delle identità allo scopo della formazione di un nuovo e indistinto tipo antropologico unificato su scala globale, il consumatore cosmopolita individualizzato e perfettamente integrato, quale oggetto più o meno consapevole, nei meccanismi neoliberali di comunicazione universale.

Le identità collettive, nell’epoca del capitalismo globalizzato, devono essere disarticolate e sciolte, con le “buone” o con le “cattive”, nella “Cultura McWorld” e nella società dell’internet senza frontiere (World Wide Web). Per cui a essere discriminati oggi non sono i sostenitori della decostruzione (attraverso il grimaldello della cosiddetta libera scelta) delle identità bensì coloro i quali si costituiscono attori e soggetti sociali impegnati nella valorizzazione di identità collettive “rigide” e “tradizionali”, in opposizione ai summenzionati processi di flessibilizzazione integrale. Un paio di esempi a riguardo risultano indicativi per comprendere meglio di che cosa stiamo parlando: il 15 luglio 2014 il presidente della commissione europea, il democristiano conservatore lussemburghese Jean-Claude Juncker, rivolgendosi, dalla tribuna dell’aula parlamentare di Strasburgo, a Marine Le Pen, disse: «Grazie, signora Le Pen, per non votarmi. Non voglio il voto di chi respinge e di chi esclude»[1].

Ciò significa che per gli euroburocrati liberali, di destra e di sinistra, la presenza di formazioni politiche percepibili come “anti-sistema” nel contesto parlamentare europeo è tollerata ma non riconosciuta e che l’effettivo diritto di cittadinanza politica, nell’assemblea europea di Strasburgo, deve intendersi appannaggio esclusivo delle forze politiche liberaldemocratiche, socialdemocratiche, conservatrici ed ecosocialiste, ossia dei gruppi parlamentari schierati su posizioni atlantiste in politica estera, liberali e cosmopolite in politica interna, liberiste in economia e libertarie in politica sociale. Le culture politiche non rispondenti a tali presupposti ideologici compatibili con i processi di flessibilizzazione di cui sopra sono considerate, dai tecnocrati neoliberali della Ue, ospiti indesiderati dell’emiciclo parlamentare di Strasburgo.

Sempre nell’estate 2014, il presidente ucraino, Petro Poroshenko, varò un decreto che stabilì la radiazione dalla Rada ucraina (l’Assemblea nazionale, il Parlamento) dei 35 deputati comunisti eletti alle votazioni del 2012, quando il KPU (Partito comunista di Ucraina) ottenne il 13,5 per cento dei suffragi popolari. Ebbene, nessun organo d’informazione mainstream italiano, televisivo o cartaceo, spese una sola parola o una sola goccia d’inchiostro per denunciare questo prevaricatorio atto politico, volto a sopprimere ogni residua parvenza di democrazia a Kiev. Il KPU infatti, essendo avvertito, in Occidente, anche da molti commentatori di sinistra (radical-chic), come una sorta di “relitto” politico dell’epoca sovietica e come “partito filo-russo” ed erede di una tradizione “autoritaria” e non compatibile con il processo di “integrazione” euro-atlantica dell’Ucraina, poteva essere discriminato, disarticolato e bandito per decreto, quasi si trattasse di un’organizzazione criminale, senza suscitare l’interesse di quei media aziendali che non esitavano a dedicare paginate intere, con articoli, servizi fotografici e interviste, ogni volta che alle Femen o alle Pussy Riot veniva in patria contestato, dalle autorità giudiziarie competenti, il reato di atti osceni in luogo pubblico.

Per cui le volgarità e le blasfemie delle Pussy Riot e delle Femen erano giudicate, dai media occidentali, “espressione di dissenso politico”, mentre il decreto liberticida e seppellitore della democrazia ucraina di Poroshenko ai danni del KPU non veniva neanche, da tali media, preso in considerazione o nominato. Le postmoderne, anarchiche e francamente oscene Femen e Pussy Riot venivano definite “dissidenti” ed “attiviste per la democrazia” in Russia, ospitate in prestigiosi talk show e immortalate sulle copertine delle più rinomate riviste di cultura politica liberaldemocratica del panorama mediatico italiota in quanto tali attori politici dell’opposizione filoccidentale “russa”, per loro stessa dichiarazione, si configuravano come sostenitori del capitalismo globalizzato, della società dei consumi, della società dello spettacolo (di cui erano parte integrante) e del processo di flessibilizzazione delle masse. Il KPU veniva invece definito una “quinta colonna di Mosca a Kiev”, un partito statalista di sovietica memoria, e pertanto la sua messa al bando per decreto era taciuta e approvata (chi tace acconsente, dice il proverbio) quale tappa sul percorso di auto-scioglimento dello Stato-Nazione ucraino nell’indistinto mercato globale e nelle strutture politico-militari neoliberali della NATO e, in prospettiva, della Ue. I comunisti in Ucraina sono stati massacrati dalle milizie neonaziste (autrici del golpe, benedetto a Washington e a Bruxelles, come “rivoluzione democratica”) dopo il febbraio 2014 e tutto ciò è avvenuto nel silenzio complice del vergognoso “circo mediatico” liberaldemocratico occidentale.

Chi sono dunque le «minoranze discriminate» dal ceto politico e dal “circo mediatico” di complemento all’atlantismo nell’epoca del capitalismo assoluto? Facile e immediata la risposta: gli avversari della globalizzazione quale moto unitario, ossia economico, politico e culturale, di riproduzione tardocapitalistica. Veniamo ora agli omosessuali. Mi preme, innanzitutto, operare una sostanziale distinzione di merito: occorre infatti distinguere tra le categorie di “omosessuale” e di “gay”, laddove la “libera scelta individuale affettiva” del primo non ha nulla a che vedere con il conformismo neoborghese del secondo.

Quella del gay è una figura sociologica assai precisa, perfettamente adattabile all’odierna società di spettacolo. La figura sociologica del gay è infatti il risultato del processo di adattamento degli omosessuali al postmoderno, alle forme maggiormente narcisistiche di spettacolarizzazione del proprio “Io”, di cui la sfera sessuale è componente imprescindibile. Il gay è perfettamente interno ai canoni culturali modaioli rientranti nell’alveo sociologico della cosiddetta normalità (leggasi, alienazione consumistica). La categoria sociologica del gay è uno dei frutti del processo di flessibilizzazione consumistica e di alienazione conformistica delle masse, tipico di società a capitalismo avanzato. Mentre infatti un tempo chi lottava per l’effettiva emancipazione degli omosessuali era orgoglioso di «non essere come gli altri», oggi i gay rivendicano il proprio “diritto” all’integrazione individuale nella società dei consumi e dello spettacolo, come soggetti sociali smaccatamente compatibili e interni alla messinscena narcisistica di un mondo totalmente dedito alla ricezione di messaggi pubblicitari tesi all’esaltazione dell’individualismo antipolitico e del processo di tribalizzazione consumistica dei gruppi sociali. In tal senso, si può dire che, desiderando l’accesso, quali attori sociali protagonisti, nell’ambito del “circo mediatico” unificato, i gay abbiano intrapreso, mediante la via dell’adattamento alle egoistiche pratiche di conformistica spettacolarizzazione messe a disposizione dal nominato “circo mediatico”, un percorso di alienazione individualistica bellamente quanto erroneamente scambiato per l’innesco di un processo di emancipazione di genere…

Naturalmente, se quanto affermato più sopra è vero, è anche ovvio che il gay pride, lungi dal connotarsi come una manifestazione di orgogliosa presa di coscienza collettiva in chiave di liberazione ed emancipazione, non è che una sorta di show esibizionistico mutuato dal modello televisivo d’Oltreoceano. Un’americanata insomma, del tutto inutile all’emancipazione collettiva degli omosessuali, funzionale però a radicalizzarne la tendenza all’alienazione narcisistica e individualistica. Personalmente, non credo che i gay siano “perseguitati” o “discriminati” nell’ambito dell’odierna femminilizzata società dello spettacolo. Credo anzi l’esatto contrario. La discriminazione avviene sulla base del censo e trascende l’orientamento sessuale. La disponibilità, da parte del singolo individuo e a prescindere dal proprio orientamento sessuale, di denaro e proprietà, di potere d’acquisto, di potere contrattuale e di potere negoziale nell’ambito della citata società dello spettacolo, muta immediatamente il crudele, volgare e ingiustificabile disprezzo fascistoide nei confronti del «frocio» nell’ammirata estasi plebea nei riguardi del gay fashion addicted e, a vario titolo, interno al microcosmo patinato dei vip.

Detto questo, essendo un oppositore dell’odierna pratica del matrimonio come momento di esibizionistico lavacro mondano delle frustrazioni esistenziali di una realtà, individuale come di coppia, totalmente dedita alla commercializzazione e alla monetizzazione della propria sfera sentimentale, non posso che rifiutare con sdegno ogni ipotesi legislativa tendente all’estensione di tale svilito rituale, privato di ogni suo significato simbolico e politico originario (la regolamentazione giuridica dell’accesso alle donne da parte degli uomini nelle società tradizionali), ai gay. Scrive infatti Enrico Galoppini: «L’idea che sta alla base delle società moderne è quella della fluidità. Nulla è stabile, nulla è dato una volta per tutte. Nulla è “così come è”. I giorni sono perciò tutti uguali, tutti utili per fare “shopping”. La “flessibilità” e la “mobilità” sono la regola aurea non solo dei rapporti di lavoro, ma anche familiari. Si divorzia con disinvoltura come ci si cambia un paio di scarpe […]»[2].

In altri termini, sono contrario, per ragioni esclusivamente politiche (e non etiche o religiose), al matrimonio come oggi viene inteso nell’ambito di una società dei consumi e dello spettacolo; e per gli eterosessuali, e per gli omosessuali. Infine, sulla questione relativa alla «causa dei diritti civili [che] viene oggi strumentalizzata dai cantori del neoliberismo» sono perfettamente d’accordo con quanto scritto da Enrico Galoppini in un breve saggio ad hoc, Un esempio di “soft power” occidentale: la propaganda omosessuale contro la Russia, pubblicato sul n. 2 del 2014 della rivista «Eurasia» ed invito, per chi volesse approfondire il tema dell’uso politico delle libertà consumistiche occidentali al fine di preparare il terreno per la formazione e la manipolazione di una “società civile” orientata in senso cosmopolitico e pro-Usa in Russia, a leggere il citato saggio.

[1] Fonte: http://www.lefigaro.fr/politique/le-scan/citations/2014/07/15/25002-20140715ARTFIG00287-jean-claude-juncker-a-marine-le-pen-merci-de-ne-pas-voter-pour-moi.php, 15 luglio 2014.

[2] E. Galoppini, Un esempio di “soft power” occidentale: la propaganda omosessuale contro la Russia, in AA. VV., La seconda guerra fredda, «Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici», n. 2, 2014, p. 105.

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