L’impalcatura strutturale è stata messa in piedi all’inizio degli anni ‘90. Ma quella struttura è stata eretta su false premesse e pigre idee sbagliate. I suoi difetti, tuttavia, sono stati coperti per quasi due decenni; ma ora i cambiamenti nel paradigma regionale generale significano che l’impalcatura si sta capovolgendo: non contiene più i conflitti latenti, ma ci sta portando a capofitto verso di loro.

Per comprendere la doppia elica al centro del Medio Oriente, che ci trascina nella sua vorticosa voragine, dobbiamo innanzitutto affrontare la struttura delle relazioni di Israele con l’Iran e i palestinesi, e vedere come questa sia arrivata a bloccarci in dinamiche che, allo stato attuale, minacciano di rompere le catene che tengono in piedi il contenimento.

Oggi l’Iran è demonizzato come una minaccia intollerabile per l’ordine globale occidentale. Ma non è sempre stato così.

“Avevamo relazioni molto profonde con l’Iran, che si insinuavano nel tessuto dei due popoli”, ha dichiarato un alto funzionario del Ministero degli Esteri israeliano subito dopo la Rivoluzione Iraniana del 1979. I funzionari israeliani (e statunitensi) ritenevano allora una pura follia considerare l’Iran come qualcosa di diverso da un interlocutore naturale.

Questo senso di stretta affinità è persistito ben oltre la Rivoluzione Iraniana. Non si trattava solo del rimorso per il defunto Shah. Sentimenti d’immaginaria affinità spinsero persino i duri politici israeliani di destra – tra cui il primo ministro Menachem Begin – a tendere la mano alla nuova leadership rivoluzionaria: il pragmatismo dell’Ayatollah Khomeini in politica estera era frainteso dagli israeliani come prova che la rivoluzione era stata un’aberrazione.

Ben Gurion, il primo Primo Ministro israeliano, non vedeva Israele come parte del Medio Oriente, ma come parte dell’Europa. Dal 1952 Ben Gurion ripeteva che, sebbene gli israeliani si trovassero in Medio Oriente, si trattava di un incidente geografico, poiché erano un popolo europeo. “Non abbiamo alcun legame con gli arabi”, disse. “Il nostro regime, la nostra cultura, le nostre relazioni non sono frutto di questa regione. Non c’è alcuna affinità politica tra noi, né solidarietà internazionale”.

A seguito di questa ottica piuttosto orientalista, Ben Gurion guardò in prima istanza agli Stati Uniti come partner – ma, respinto da Eisenhower, sviluppò il concetto di “Alleanza della Periferia” che, insieme ad una successiva alleanza delle minoranze, mirava a bilanciare la vicinanza degli stati arabi ostili stringendo alleanze con Iran, Turchia ed Etiopia. Si trattava di un tentativo di rafforzare la deterrenza israeliana, ridurre l’isolamento di Israele e accrescere la sua attrattiva come “risorsa” per gli Stati Uniti.

Qui si trova il primo errore di percezione della storia dell’impalcatura: vista da Israele (una prospettiva condivisa dagli Stati Uniti), la Rivoluzione Iraniana non è stata altro che una discontinuità nella narrazione occidentale di una progressione storica, dall’arretratezza alla modernità secolare di stampo occidentale. Era un’aberrazione, un calcio contro la modernità che si sarebbe auto-corretto nel tempo. La base ideologica della rivoluzione, quindi, era vista come vuota. E ogni volta che la leadership rivoluzionaria iraniana mostrava segni di pragmatismo nella sua politica estera, rafforzava la convinzione degli Stati Uniti e di Israele che ciò avrebbe portato alla fine a un’alleanza con Israele.

È stata quest’ultima convinzione a sostenere il pensiero israeliano e statunitense negli anni ‘80. Yossi Alpher, ex funzionario del Mossad, ha osservato che la dottrina della periferia era così “profondamente radicata” nella mentalità israeliana da essere diventata “istintiva”. Fu per questa convinzione che Israele persuase gli Stati Uniti a vendere armi all’Iran a metà degli anni ‘80, preludio dello scandalo Iran-Contra.

Perché si è verificato questo equivoco? Probabilmente è dovuto a uno stile di razionalità secolare occidentale che, radicato nel suo pregiudizio materialista, non ha percepito alcuna ideologia della Rivoluzione nel senso contemporaneo postmoderno di un progetto di obiettivi concreti. Di conseguenza, ha trascurato in Iran il filo di un antico “modo di essere” filosofico – non un’ideologia – che semplicemente non esisteva in ambito sunnita, dove Ibn Taymiyyah aveva “chiuso i cancelli” alla filosofia, già nel XIII secolo. Questo significava allora che era una minaccia?

Se è vero che la cultura occidentale della società dei consumi ripugnava ai leader iraniani, essi non avevano alcun problema con la modernità o la tecnologia in quanto tali. La rivoluzione non è mai stata concepita con ambizioni regionali aggressive. Non minacciava Israele o gli Stati Uniti in termini militari convenzionali. Si trattava di una trasformazione esoterica, che (è vero) non era facilmente accessibile a molti in Occidente.

In ogni caso, negli anni 1990-92 sono intervenuti eventi che hanno ribaltato il paradigma. Il primo fu l’implosione dell’Unione Sovietica, che vide la Russia “uscire” dalla regione; il secondo fu la prima guerra del Golfo, che vide l’Iraq eliminato come minaccia per Israele.

Paradossalmente, Israele, invece di esserne rassicurato, fu spaventato. Iran e Israele erano ora le principali potenze regionali rivali. E se gli Stati Uniti si fossero schierati con l’Iran, anziché con Israele, dopo la guerra? Ebbene, il Partito Laburista di Yitzhak Rabin, eletto nel 1992, decise in modo drastico e radicale di capovolgere tutto, per garantire che ciò non accadesse.

La svolta di Rabin [in inglese] pose Israele e Iran sui lati opposti della nuova equazione, e il cambiamento fu tanto intenso quanto inaspettato: “L’Iran deve essere identificato come il nemico numero 1”, ha dichiarato al New York Times Yossi Alpher, all’epoca consigliere di Rabin. E Shimon Peres, l’altra figura laburista di spicco, in un’intervista del 1993 avvertì la comunità internazionale che l’Iran sarebbe stato dotato di una bomba nucleare entro il 1999.

In altre parole, l’Iran è stato reso il nemico manicheo dell’Occidente per scelta, come tattica politica, piuttosto che a causa di qualsiasi prova oggettiva d’inimicizia. La demonizzazione dell’Iran è servita come leva per deviare la lobby ebraica statunitense: la lobby sarebbe passata a concentrarsi sulla minaccia esistenziale dell’Iran, piuttosto che rivolgere la propria rabbia contro i leader israeliani per aver tradito Jabotinsky, intrattenendosi con il nemico, Arafat e gli arabi.

Era stato Jabotinsky a sostenere, nel suo fondamentale articolo sul Muro di Ferro del 1923, che non ci sarebbe mai potuto, e dovuto, essere un accordo con gli arabi. Eppure Rabin aveva messo da parte l’Alleanza della Periferia di Ben Gurion, per abbracciare Yasser Arafat e un movimento palestinese che era emerso paralizzato dalla sconfitta dell’Iraq nella Guerra del Golfo.

L’inversione del paradigma precedente è stata completata dagli sprezzanti e molteplici rifiuti degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, nonostante la cooperazione di quest’ultimo con Washington durante la guerra in Afghanistan (2002) e in Iraq (2003) e gli audaci tentativi del 2003 di mitigare le preoccupazioni statunitensi sul suo programma nucleare.

Tutto inutile. Gli Stati Uniti erano “strafatti” di adrenalina per la guerra in Iraq. William Kristol, uno dei principali neocon statunitensi, avrebbe scritto nel maggio 2003: la sconfitta dell’Iran era diventata il mezzo per sferrare un doppio colpo alla psiche araba e musulmana, nonché alla resistenza islamista. Gli arabi sarebbero diventati docili e il Medio Oriente avrebbe ceduto, come tante tessere del domino.

L’impalcatura strutturale delle tensioni odierne è stata quindi imbullonata, sempre sulla base di false premesse.

In primo luogo, i palestinesi dovevano essere “contenuti” negli Accordi di Oslo. Questi accordi sono stati eretti su tre pilastri: che la sola demografia, nelle terre tra il fiume e il mare, significava che Israele alla fine avrebbe dovuto “regalare” ai palestinesi il loro stato (cioè quando i palestinesi cominciarono a essere più numerosi degli ebrei); che per ottenere la sovranità, era necessario che i palestinesi rassicurassero Israele che si sarebbero occupati dei suoi problemi di sicurezza (cioè dovevano costruire la fiducia con Israele che i palestinesi non avrebbero rappresentato un rischio per la sicurezza); e terzo, che sarebbe stato solo Israele a determinare quando gli sforzi palestinesi per la sicurezza meritavano di “regalare” loro la sovranità.

Queste ultime premesse si basavano su fondamenta errate (come testimoniano gli ultimi trent’anni).

La struttura successiva, la questione nucleare iraniana (affrontata in ultima analisi con il JCPOA), è stata concepita con un approccio simile: la sovranità nazionale iraniana doveva essere limitata (se avesse cercato di esercitare i suoi diritti nell’ambito del Trattato di Non Proliferazione); all’Iran sarebbe stato richiesto di dimostrare un risultato negativo (che non stava perseguendo un programma di armamento) e, in terzo luogo, Israele e gli Stati Uniti sarebbero stati l’arbitro finale sulla fiducia che l’Iran avrebbe potuto avere in un programma di energia nucleare (pacifico).

L’ultima componente strutturale delle tensioni contemporanee è stata messa in atto nell’arco di dieci anni da Benjamin Netanyahu. Egli ha spostato il centro di gravità di Israele significativamente a destra, sia politicamente che culturalmente. Ha deliberatamente bruciato tutti i ponti israeliani verso qualsiasi soluzione politica: con i palestinesi o con l’Iran, sostenendo che un Israele potente dal punto di vista militare, alleato con un Presidente e un Congresso statunitensi favorevoli, fosse in grado di non cedere un centimetro a nessuno dei due.

E così… arriviamo all’inversione del paradigma di oggi. Invece della Russia “fuori” dal Medio Oriente, la Russia è “dentro” e gli Stati Uniti (progressivamente) stanno andando “fuori”; anziché un Israele al primo posto nella regione, abbiamo Israele isolato nella regione (l’unico Stato che abbia “attraversato il Rubicone” per armare l’Ucraina e uccidere i russi); anziché Mosca che chiude un (riluttante) occhio sulle incursioni aeree israeliane in Siria, abbiamo una Mosca tesa con Israele e, quando Israele fa delle incursioni, sempre più pronta [in inglese] ad accendere il radar di puntamento delle sue difese aeree in Siria.

E… soprattutto, invece di avere Israele col “vantaggio militare”, abbiamo la deterrenza della Pillola Rossa dell’Iran [in inglese].

Che cos’è la Deterrenza della “Pillola Rossa”? In parole povere, è l’unione congiunta di droni a sciame e missili da crociera intelligenti che circondano Israele da tutti i lati. La Pillola Rossa è questa: se l’Iran è attaccato dall’America, l’Iran ne sarà sicuramente danneggiato ma, dopo, “Israele non ci sarà più”.

Perché questo cerchio d’impalcature di contenimento scadute si sta chiudendo ora, con un’impennata delle tensioni?

Perché il rinnovo del JCPOA sembra sfuggire a Biden [in inglese] (in parte a causa della mancanza di sostegno da parte del Congresso). Nell’ottobre 2022 scadrà l’embargo sulle armi (previsto dal JCPOA del 2015) e altre clausole di restrizione inizieranno a scadere nel 2025. E nei prossimi mesi, fioccheranno in Occidente le affermazioni sull’Iran che ha raggiunto la soglia nucleare.

In ambito palestinese, tutte le fazioni palestinesi si sono riunite per proteggere Al-Aqsa. Se quest’ultima sarà nuovamente minacciata da un’invasione di coloni israeliani, sarà apparecchiata “sul tavolo” una guerra su quattro fronti (di nuovo lo scenario della Pillola Rossa!).

Metaforicamente parlando, come l’accerchiamento nel Donbass è un calderone per le forze ucraine che vi si trincerano, così la Pillola Rossa è stata concepita come il calderone per Israele.

Per ora, un frustrato Presidente Putin continua a girarsi l’anello, mentre gli attori regionali si preparano alla guerra. Che cosa farà la leadership israeliana? Russia, Cina e SCO possiedono probabilmente l’unica chiave che potrebbe sbloccare la situazione e permettere di tentare un’architettura di sicurezza regionale. Ma per Israele percorrere questa strada significherebbe incrociare Washington in un momento di grande tensione psichica.

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 Articolo di Alastair Crooke pubblicato su Strategic Culture Foundation  il 23 maggio 2022
Traduzione in italiano di Pappagone per SakerItalia

[le note in questo formato sono del traduttore]

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