Esattamente 100 anni fa, il Generale Douglas Haig, comandante in capo dell’esercito inglese che combatteva in continente durante la Prima Guerra Mondiale, lanciava una grossa offensiva in quella parte di Francia del Nord conosciuta come Dipartimento della Somme. Un dipartimento è una circoscrizione amministrativa e questo prende il nome dalla Somme, il fiume che scorre pigramente nella zona, da est ad ovest, fino alle coste della Manica; durante la Prima Guerra Mondiale (questo fiume) attraversava la linea del fronte occidentale, che si sviluppava dal confine svizzero, a sud-est, fino alla costa belga del Mare del Nord, a nord-ovest.
Il Dipartimento della Somme corrisponde, più o meno, all’antica provincia della Piccardia, che ha per capitale Amiens. La maggior parte dei combattimenti di quella che sarà poi conosciuta come “Battaglia della Somme” si erano svolti nella zona ad est di Amiens, fra la cittadina di Albert, che era in mano agli alleati, e i centri di Bapaume e Peronne, che si trovavano dietro le linee tedesche.
L’obbiettivo dell’offensiva di Haig era duplice. Lo scopo prioritario era quello di allentare la tremenda pressione a cui erano sottoposte le truppe francesi, che stavano disperatamente cercando di fermare una grossa offensiva tedesca volta a catturare la storica città di Verdun. Ma Haig aveva anche intravisto la possibilità di riuscire proprio dove aveva fallito l’offensiva franco-inglese del 1915, e di vincere la guerra operando uno sfondamento attraverso le ben difese linee tedesche. Aveva parlato in termini ottimistici dell’offensiva che aveva pianificato, definendola la “grande spinta in avanti”, o, in modo più sbrigativo, lo “spintone”. Il comandante in capo dell’esercito britannico era convinto che Dio lo avesse scelto personalmente per guidare alla vittoria la sua nazione e i suoi alleati; di questa offensiva avrebbe detto in seguito che “sentiva come ogni singolo passo del [suo] piano fosse stato intrapreso con l’aiuto divino”.
La regione della Somme era un settore particolarmente tranquillo del fronte occidentale. Le truppe britanniche dislocate laggiù erano formate da novellini, reclute inesperte da poco arrivate in Francia. Non erano soldati di professione, come i membri del Corpo di Spedizione Inglese (BEF), che erano già entrati in battaglia fin dall’inizio della guerra, nell’estate del 1914; questi erano i volontari che si erano arruolati nel 1914 e nel 1915 ed erano conosciuti con il nome di “Armata di Kitchener”, perché avevano obbedito al famoso appello di Lord Kitchener per andare a combattere per il re e per la patria. La gran parte di questi uomini veniva dalla stessa Gran Bretagna, cioè da Inghilterra, Scozia e Galles, e anche dall’Irlanda.
Il 1° luglio 1916, le condizioni metereologiche erano state definite “divine”, ma quella magnifica giornata d’estate si sarebbe trasformata nell’ora più buia di tutta la storia dell’esercito britannico. Esattamente alle 07:30 del mattino, i cannoni inglesi che bombardavano le posizioni tedesche si erano fatti all’improvviso silenziosi e i “Tommies”, come erano chiamati i soldati britannici, “erano andati in cima” o “avevano saltato i sacchetti”, come veniva chiamata l’uscita dalla trincea. Nel caso del Reggimento del Surrey, quando l’attacco era iniziato, un ufficiale aveva calciato un pallone da football in direzione delle trincee tedesche, come se questo fosse stato l’inizio di un gioco o di un torneo sportivo. Nelle menti dei Tommies, per la maggior parte ancora senza esperienza, questa bravata aveva creato l’impressione che la situazione fosse sotto controllo e che tutto sarebbe andato bene. Inoltre, gli ufficiali avevano rassicurato gli uomini sul fatto che, praticamente, non avrebbero trovato opposizione di sorta: per cinque giorni consecutivi uno schieramento di artiglieria senza precedenti, che assommava a circa 1.600 cannoni, aveva bombardato senza sosta i Tedeschi, sparando all’incirca un milione e mezzo di proiettili; perciò si riteneva che delle posizioni tedesche e dei loro difensori non fosse rimasto molto.
E così gli uomini erano avanzati attraverso la terra di nessuno proprio come era stato detto loro di fare, alla maniera inglese: disciplinati e composti, marciando lentamente, eretti, spalla a spalla. I comandanti inglesi non avevano però previsto che fin troppi difensori tedeschi, nascosti in bunkers e in solide gallerie, scavate fino a 10 metri sottoterra, riuscissero a sopravvivere al bombardamento preliminare di artiglieria. Appena i cannoni avevano cessato il fuoco, i Tedeschi sopravvissuti avevano capito che l’attacco era imminente, e così erano usciti di corsa dai rifugi con le loro mitragliatrici. Non avevano potuto credere ai loro occhi, alla vista di migliaia e migliaia di soldati britannici che si avvicinavano attraverso la terra di nessuno, lenti, eretti, in file perfette. Un gran numero di Tommies era così stato falciato in brevissimo tempo quella fatidica mattina. Il bombardamento preliminare, per quanto terribile, era stato molto meno efficace del previsto perchè i proiettili inglesi erano di scarsa qualità e più di un quarto di tutti i colpi sparati aveva fatto cilecca e non era esploso. Le ondate di attaccanti britannici erano state falciate, una dopo l’altra dai “tritacarne” (Fleischhackmaschinen) o dalle “macchine da cucire” (Nahmaschinen), come i Tedeschi chiamavano le loro mitragliatrici.
I Tommies continuavano tuttavia ad avanzare. Questo era stato il caso, anche abbastanza avanti nella giornata, del Reggimento Terranova, una delle rare unità britanniche coinvolte nella battaglia che non provenissero dalla stessa Gran Bretagna. (Al tempo, questa grande isola nel nord-ovest dell’Atlantico non faceva ancora parte del Canada, come oggi, ma era una colonia inglese separata). In prossimità del villaggio di Beaumont-Hamel, 684 dei 752 uomini del Terranova erano caduti sotto il fuoco delle mitragliatrici tedesche, senza che essi potessero vedere anche un solo nemico. Ma quale generale inglese poteva mai preoccuparsi per la perdita di qualche centinaio di pescatori, minatori ed altri lavoratori provenienti da una lontana ed insignificante parte del glorioso Impero?
In quel fatidico “primo giorno sulla Somme”, l’esercito britannico aveva avuto, in una sola giornata, le perdite peggiori di sempre: circa 60.000 fra morti e feriti, probabilmente di più, su un totale di 110.000 uomini che aveva partecipato all’attacco. Le perdite tedesche erano state presumibilmente di 8.000 uomini. Le migliaia di cavalleggeri, tenuti in allerta da Haig, avevano aspettato invano l’ordine di avanzare, perchè la tanto sperata breccia nelle linee tedesche non si era mai verificata. La Battaglia della Somme era iniziata in modo catastrofico il 1° luglio 1916, ma si sarebbe trascinata fino al mese di novembre dello stesso anno, rivelandosi un Moloch che avrebbe divorato ancora più vite. I Britannici erano riusciti a conseguire dei piccoli vantaggi territoriali ma assai più importante, anche se dibattuto, era il fatto che la manovra di Haig aveva fornito il tanto sospirato alleggerimento ai Francesi che erano assediati a Verdun. In ogni caso, proprio come a Verdun, le perdite erano state enormi. I Britannici avevano subito perdite per un totale di circa mezzo milione di uomini, compresi almeno 125.000 morti, mentre i Francesi avevano avuto 200.000 fra morti e feriti. Le vittime tedesche ammontavano presumibilmente a circa mezzo milione di uomini. Considerando tutti i contendenti, l’olocausto della Somme è costato più di un milione di uomini fra uccisi, feriti, dispersi e prigionieri di guerra.
Com’è stato possibile mandare incontro alla morte, con così tanta indifferenza, decine di migliaia di fanti in quel fatidico primo giorno di luglio? Fin dagli anni ’60 è diventata una moda incolpare il Generale Haig e i suoi colleghi per la loro incompetenza, se non addirittura per la loro stupidità; i soldati britannici erano probabilmente abbastanza esperti e coraggiosi, ma hanno avuto la sorte di essere un “branco di leoni guidato da somari”. In ogni caso, demonizzare Haig e i suoi colleghi, in altre parole, dare la colpa del massacro ad un pugno di persone, non è una spiegazione soddisfacente. Indubbiamente, nella Grande Guerra si sono visti troppi casi simili, dove i generali, non solo nell’esercito britannico, ma anche in quello tedesco, francese e russo [e anche in quello italiano NdT], ordinavano con nonchalance attacchi che rappresentavano una sentenza di morte per decine, se non centinaia, di migliaia dei loro stessi uomini, come per esempio nella Battaglia di Tanneberg (1914) e di Chemin des Dames (1917). Molti di questi comandanti erano dei professionisti esperti e sarebbe un errore considerarli tutti dei “somari”. In ogni caso, negli eserciti delle nazioni belligeranti, gli ufficiali di solito erano per la stragrande maggioranza dei “gentiluomini”, membri dell’élite sociale e i generali solitamente erano aristocratici o facevano parte dei gradi più alti della classe medio-alta (la borghesia), che aveva fatta propria l’etica dell’aristocrazia, come nel caso di Haig. E’ questo retroterra classista delle gerarchie militari che può aiutarci a dare un senso ai massacri della povera gente, come quello del 1° luglio 1916.
Prima di tutto, bisogna tenere a mente che la nobiltà era stata una “classe guerriera” fin dal Medio Evo e continuava a considerare la guerra come un episodio di “cavalleria”, in cui i gentiluomini di alto lignaggio, la moderna incarnazione dei “cavalieri con le armature scintillanti”, avrebbero dovuto giocare il ruolo decisivo. Da qui la preferenza accordata alla cavalleria e alle armi da taglio, come la spada. Haig, lui stesso un cavallerizzo, aveva completamente assorbito questo modo di pensare. Non era certamente un ignorante, e aveva imparato la lezione dalle esperienze del 1914 e del 1915, che avevano dimostrato l’efficacia dei moderni (e assolutamente non cavallereschi) armamenti dell’era industriale, in modo particolare dell’artiglieria; Questo è il motivo per cui aveva ordinato il cannoneggiamento preliminare delle posizioni tedesche, di cui abbiamo già parlato. Tuttavia, egli considerava questo bombardamento solo come un preludio dell’evento principale, ossia una battaglia nello stile dei “bei tempi andati”, magari non quelli del Medio Evo, ma quelli delle guerre napoleoniche: masse di soldati appiedati, con il sostegno dell’artiglieria, si sarebbero scagliate contro le linee nemiche e avrebbero creato un varco; la cavalleria, l’arma preferita della nobiltà, avrebbe allora fatto la mossa decisiva, avrebbe caricato, attraverso il varco, le linee nemiche e avrebbe fatto sua la gloria della vittoria.
L’approccio di Haig rifletteva il modo di pensare tradizionale dell’aristocrazia, non solo per l’esagerata importanza data alla cavalleria, ma anche per l’analoga, scarsa, opinione della fanteria nemica e dei loro armamenti, fucili moderni compresi. Sembra che Haig si fosse autoconvinto che “la capacità delle pallottole di fermare i cavalli è stata molto esagerata”, magari questa è solo una leggenda, ma testimonia la sua indiscussa fiducia nelle enormi potenzialità dei combattenti a cavallo. Anche la mitragliatrice veniva sottovalutata: come avrebbe potuto un’arma, prodotta in serie da operai in qualche anonimo stabilimento e fatta funzionare da proletari, avere la meglio su un aristocratico, ritto in sella su quel “nobile” animale rappresentato dal suo cavallo?
E per quanto riguarda i comuni soldati di fanteria, non era forse inevitabile ed usuale per loro subire così tante perdite? Non era sempre stato così? E questo non era certo un problema, dal momento che di loro ce n’erano così tanti, in patria e nelle colonie d’oltremare, che si estendevano da Terranova all’India. Le élites, non solo in Gran Bretagna, ma anche in Germania, Russia e altrove, consideravano i plebei alla stregua di “materia prima”, da usarsi in grosse quantità per dare ai signori della guerra l’opportunità della vittoria e, in ogni caso, questo materiale umano era praticamente inesauribile. I soldati russi che erano sopravvissuti alla disastrosa Battaglia di Tannenberg avevano riferito che i loro comandanti “avevano agito come se avessero avuto a loro disposizione così tanti milioni di uomini, da non dare importanza a quanti ne erano stati mandati a morire”.
Nel grande schema delle cose, così come era percepito dalla leadership militare, la perdita anche di decine di migliaia di proletari in divisa non rappresentava un grosso evento. Due giorni dopo l’attacco, dopo aver ricevuto un rapporto dove si riferiva che le perdite ammontavano a 40.000 uomini (mentre in realtà erano molto più alte!), Haig aveva freddamente rimarcato che “queste non si possono considerare gravi, considerando il numero di uomini impiegati e la lunghezza del fronte attaccato”. La morte di migliaia di soldati non gli aveva causato neanche un’emicrania. “Ci lamentiamo troppo della morte“, aveva stoicamente affermato in un’occasione, “dovremmo considerarla come un cambio di stanza”. E aveva aggiunto:
“Alla nazione bisogna insegnare a sopportare le perdite…[e] a considerare i lunghi elenchi dei caduti, per come possono apparire ai non informati, come dei particolari insignificanti… Tre anni di guerra e la perdita di un terzo degli uomini della nazione non è un prezzo troppo alto da pagare per una così grande causa”.
Dal punto di vista delle classi dominanti, dentro e fuori il corpo militare, la perdita di decine di migliaia di plebei non solo era concepita come inevitabile, sopportabile e, tutto sommato, di scarsa importanza, ma anche vantaggiosa. Come molti, se non addirittura la maggior parte, dei membri dell’elite britannica ed europea (una “simbiosi” dell’aristocrazia e delle classi medio-alte), i generali come Haig ritenevano che il gran numero di appartenenti alle “classi inferiori”, fosse non solo la causa della miseria del proletariato, ma anche una minaccia per il loro stesso potere, ricchezza e privilegi; dal punto di vista delle classi superiori, quelle inferiori erano ciò che i Francesi chiamavano “les classes dangereuses” , “la vile multitude”. Le “masse” popolari apparivano stupide, aggressive e pericolose, e, in ogni caso, troppo numerose, per cui le elites vedevano di buon occhio qualunque sistema che in qualche modo servisse a diminuire il numero dei plebei, a renderlo meno consistente. La soluzione sembrava essere quella fornita dall’emigrazione in lontane colonie e, in misura anche maggiore, dai “controlli positivi”, di malthusiana memoria, sulla proliferazione del proletariato; questi “controlli positivi” (“positivi” perchè aumentavano la mortalità) comprendevano la carestia e le malattie, come la tubercolosi che colpiva la maggior parte delle classi povere, ma anche la guerra.
La guerra comportava inevitabilmente perdite considerevoli da parte della fanteria, costituita da plebei, e questo veniva considerato come una potatura o uno sfoltimento, un taglio della quantità che avrebbe dovuto migliorare la qualità. (Qualche anno prima dello scoppio della guerra nel 1914, Lord Frederick Roberts, un generale britannico che si era coperto di gloria, come solitamente si dice, nelle guerre in India e in Sud Africa, aveva esaltato la guerra come mezzo per liberarsi “della gran quantità di marciume umano che abbonda nelle nostre città industriali”). Viste sotto questo aspetto, le pesanti perdite subite il 1° luglio 1916 potrebbero essere state considerata dall’élite militare, politica e sociale anche sotto un aspetto positivo: i caduti erano sopratutto membri del volgo britannico, quella inutile, troppo numerosa e pericolosa “massa” di poveracci i cui ranghi andavano assottigliati per il bene dei loro “superiori”. Durante la Prima Guerra Mondiale, molti soldati comuni erano infatti convinti che i massacri come quello del 1° luglio 1916 riflettessero il desiderio, da parte dei loro generali, di assottigliare i ranghi dei lavoratori, rendendo così meno “massicce” e meno spaventose quelle temibili masse. Durante uno dei numerosi scioperi che si erano verificati a Parigi nel 1919, uno scioperante, parlando della Grande Guerra, aveva detto che
“Questa guerra era stata voluta dalla borghesia, dai capitalisti industriali e dai leaders di tutte le nazioni [coinvolte nella guerra]. Avevano osservato lo sviluppo delle organizzazioni del proletariato e temevano per le loro casseforti. E così avevano trovato una soluzione: eliminare i lavoratori per mezzo della guerra”.
Infine, se le fila della comune plebaglia andavano incontro a pesanti perdite, i generali riuscivano comunque a lavarsene le mani nell’innocenza, sostenendo che la colpa era degli stessi plebei. Di chi era la colpa, per esempio, se il bombardamento preliminare non aveva messo fuori combattimento un numero sufficiente di difensori tedeschi perchè moltissimi proiettili si erano rivelati difettosi? Magari era dei fabbricanti, “approfittatori di guerra”, che guadagnavano fortune producendo munizioni e che cercavano di incrementare i loro guadagni usando materiali di qualità inferiore? Per quanto riguardava Haig, comunque, non ci poteva essere alcun dubbio: i colpevoli erano gli operai delle fabbriche britanniche, che riteneva avessero “troppe ferie e troppo da bere”. (“Un’argomentazione veramente rimarchevole”, fa notare lo storico Adam Hochschild, “per qualcuno le cui fortune di famiglia si basavano sul whiskey”). Haig, in una lettera alla moglie, aveva suggerito che sarebbe stata una buona idea “prendere e fucilare due o tre di loro”, in modo da far perdere loro “l’abitudine al bere”.
I generali britannici erano naturalmente delusi dal fatto che l’attacco non avesse prodotto il risultato desiderato. Ma erano molto più contenti per il modo con cui gli uomini avevano obbedito agli ordini e per il fatto che si erano comportati così dignitosamente. “Dove oggi noi vediamo solo un massacro senza senso”, scrive Adam Hochshild, “molti di quelli che presiedevano la battaglia avevano visto solo nobiltà ed eroismo”. E, con rispetto al bagno di sangue del 1° luglio 1916, cita il rapporto di un generale:
Non un singolo uomo aveva esitato ad affrontare il pesante fuoco di sbarramento o si era sottratto al fuoco delle mitragliatrici e dei fucili, che alla fine li aveva falciati tutti…Aveva visto le formazioni che avanzavano in un ordine così ammirevole, dissolversi sotto il fuoco. E comunque non un singolo uomo aveva esitato, rotto le fila o tentato di arretrare. Non aveva mai visto, invero non avrebbe mai neanche potuto immaginare, una tale magnifica dimostrazione di coraggio, disciplina e determinazione. I resoconti dei pochissimi sopravvissuti di questa meravigliosa avanzata riferivano quello che aveva visto con i propri occhi, cioè che neanche uno dei nostri uomini era arrivato fino alle trincee tedesche.
In altre parole, le autorità militari erano compiaciute che l’attacco, anche se omicida, aveva dimostrato come esse fossero riuscite ad inculcare un po’ di classe e disciplina in quei proletari che, durante gli anni socialmente turbolenti che avevano preceduto la guerra, contraddistinti da frequenti scioperi e dimostrazioni, avevano dato prova di essere irrequieti, indisciplinati, recalcitranti ed anche ribelli. Durante l’attacco avevano obbedito agli ordini, si erano allineati alla perfezione, come scolaretti, per avanzare poi, lentamente e senza tentennamenti, attraverso la terra di nessuno, eretti e dignitosi, proprio come piaceva ai loro superiori. Infatti, per renderlo uno spettacolo bello e godibile agli occhi dei superiori che osservavano a distanza di sicurezza, l’attacco era stato programmato per avvenire in pieno giorno.
La soddisfazione dei generali per la performance dei loro subordinati quel 1° di luglio era rieccheggiata sulla stampa britannica. Un corrispondente di guerra che si trovava sul posto aveva scritto che, “tutto sommato, [era stato] un buon giorno per l’Inghilterra e la Francia. E’ stata una giornata di promessa in questa guerra”. I soldati, però, vedevano le cose sotto una luce diversa. L’offensiva della Somme, la “Grande Spinta” di Haig veniva chiamata dagli uomini “la grande cazzata”, un termine che alla fine avrebbe designato la guerra in generale. Era un termine con un doppio significato, che rifletteva non solo il disprezzo che i soldati provavano per i generali, ma anche il fatto che essi si rendevano conto di aver subito un abuso da parte di Haig e degli altri loro superiori. L’odio e il disprezzo dei soldati per i generali è stato espresso, nel modo seguente, da un famoso poeta di guerra, Sigfried Sassoon, nella poesia “Il Generale”:
“Buon giorno; buon giorno!” aveva detto il generale
Quando lo abbiamo incontrato la settimana scorsa sulla strada del fronte
Adesso i soldati a cui aveva sorriso sono quasi tutti morti,
E noi malediciamo lo stato maggiore per colpa di un incompetente maiale.
In questo contesto, vale la pena citare un commento dalle memorie dello scrittore inglese J. B. Priestley, che aveva acquisito una “coscienza di classe” in seguito alle sue esperienze come soldato nella Grande Guerra, specialmente a causa di come gli ufficiali trattavano i loro subordinati:
Il Comando Britannico era uno specialista nel gettar via uomini per nulla. La tradizione di una classe superiore ha ucciso la maggior parte dei miei amici, proprio come se quei generali di cavalleria fossero usciti dai loro castelli con le mazze da polo e ci avessero spappolato il cervello. Chiamatelo pregiudizio di classe, se vi piace, ma almeno ricordate…che sono andato a quella guerra senza un simile pregiudizio, libero da ogni sentimento di classe.
La Battaglia della Somme è stata di ispirazione per una canzone che sarebbe diventata un grosso successo in Gran Bretagna, Rose di Piccardia, scritta da un avvocato, nonché famoso paroliere, Frederick E. Weatherley. La Provincia della Piccardia, più o meno l’equivalente territoriale del Dipartimento della Somme, e perciò teatro della grande battaglia, non è affatto famosa per le sue rose, questi fiori funzionano come potente simbolismo per tutto il sangue versato in quella regione, allo stesso modo dei papaveri per i campi delle Fiandre. Inoltre, come ha fatto notare Paul Fussell, le rose sono strettamente collegate all’Inghilterra e sono un simbolo di lealtà alla madre patria britannica. In questa canzone, la lealtà per la terra natia è intimamente associata alla lealtà per la persona amata:
Le rose scintillano in Piccardia
Nella calma della rugiada mattutina
Le rose fioriscono in Piccardia
Ma non ci sarà mai una rosa come te
E le rose moriranno con l’estate
E le nostre strade potranno separarsi
Ma c’è una rosa che non muore in Piccardia
Questa è la rosa che porto nel mio cuore.
Rose di Piccardia è una bellissima canzone, molto efficace nel rievocare l’atmosfera in Gran Bretagna durante la Battaglia della Somme. Ma l’orrore e l’assurdità di tutta la battaglia, e in particolare dell’attacco del 1° di luglio si esprimono ancora più intensamente nella poesia : “Dopo l’offensiva” di Theo Van Beek, un ufficiale di artiglieria:
Ondate di uomini forti
Che non risorgeranno più
Sparpagliati e spezzati
Giaci e marcisci
Che cosa non hai dato?
E che cosa hai ottenuto?
*****
Articolo di Dr. Jacques R Pauwels pubblicato da Global Research il 2 luglio 2016
Tradotto in italiano da Mario per Sakeritalia.it
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