Nota: in seguito a “Santuari dissacrati“, questa è la seconda testimonianza della vita quotidiana in Novorussia inviatami da Dagmar Henn, rappresentante della Saker Community in Novorussia e team leader del blog tedesco di Saker, che ha trovato il tempo per scrivere questo testo, mentre stava riorganizzando il blog tedesco.
Il Saker
È una mattina fredda, ma soleggiata, quella in cui partiamo da Oktiaborskii, un quartiere che è stato considerevolmente bombardato, come tanti altri costruiti attorno alla miniera che porta lo stesso nome. Guidiamo fino all’ultima fila di case: solo un gruppo di alberi le separa dai campi, e solo 500 metri dal confine ucraino. Qui incontriamo il battaglione Vostok, che consegna del cibo. Incontro pianificato o accidentale? Non è certo, qui tutto accade di fretta, un paio di minuti in un posto e poi è già ora di ripartire.
Niente gas, niente elettricità. Davanti alla seconda casa che visitiamo c’è una cucina improvvisata: solo una lastra di metallo su qualche pietra, sotto un piccolo capanno. La legna da ardere non manca, raccolgono i rami che i bombardamenti fanno cadere dagli alberi. Le facciate sono butterate dai frammenti dei proiettili. Mi ricordo quei segni, nella mia infanzia molti edifici di Monaco li avevano ancora, dei neri e sporchi buchi, ma questi sono nuovi, e la pietra sotto lo strato di grigio brilla di un puro bianco.

Oktiaborskii
Uno degli uomini che erano usciti per prendere il cibo si avvicina a me. È ubriaco, e arrabbiato. Dopo un po’ mi dice che guidava camion alla miniera. “Non avete soldi in Germania? Non potete semplicemente comprare il gas?” dice, poi aggiunge “Ci avete già provato tre volte, e fallirete ancora”.
Stanislava ci avverte che dovremmo partire, così torniamo nell’autobus… Ma dov’è il Turco? È andato a fotografare un’impressionante buca nella strada, che circonda i resti di un razzo che avevamo superato passando di qui.
Lasciamo i margini della città e ci addentriamo nel quartiere. Dobbiamo aspettare un po’ prima di uscire dall’auto. Il tempo è cambiato, bruscamente, e sta grandinando. Ci mettiamo al riparo dal cattivo tempo nel nostro autobus, pensando alla grandine non naturale che qui cade così spesso.
La primavera sembra uno strano autunno, in cui dagli alberi cadono non solo le foglie, ma anche i rami, e dalle case per compassione cadono i vetri. Vicino agli edifici ogni passo è uno scricchiolio.
Alla nostra vista, le persone reagiscono in due modi differenti. O non vogliono parlare con noi, non vogliono alcun contatto con gli occidentali, oppure si radunano attorno a noi, per sfogare la loro rabbia. Anche solo per avere l’opportunità di dare del bastardo a Poroshenko. In questo luogo, incontriamo il secondo tipo di persone.
“Abbiamo passato settimane nelle cantine” dice una donna, e la sua vicina aggiunge: “Io non ho neanche potuto andarci. Mia madre vive con me, e non può camminare: dovrei lasciarla sola?” Solo la scorsa notte questo quartiere è stato nuovamente colpito. Ora si sente un lontano rimbombo provenire dall’area dell’aeroporto. Mortai, dicono, dei pezzi di artiglieria. La tregua è udibile.
Dietro l’angolo ci sono dei piccolo giardini davanti alle case, con recinti in cemento e file di tulipani da poco piantati. Da pochi minuti il cielo si è rischiarato e il sole splende di nuovo. Incontriamo una coppia di anziani, l’uomo borbotta che è cresciuto durante la Seconda Guerra Mondiale e sa ancora capire da dove proviene una bomba. Sa che sono gli ucraini. Sua moglie ci parla del nipote, che ha 19 anni e sta combattendo all’aeroporto. Inizia a piangere, e Stanislava la abbraccia. Anche lei è sul punto di piangere, e dice “Non abbiamo diritto di riporre le nostre armi, finché persone così anziane sono costrette a soffrire così tanto”.
Ancora autobus, e ancora grandine. Olga commenta “Il sole combatte con le nuvole” e qualcuno aggiunge “La guerra fra bene e male.” “Un luogo di mezzo” dice Dana, la seconda traduttrice, ed è come se questa frase riassumesse tutta la loro esistenza.
Ci fermiamo al mercato per un pranzo veloce; la prossima tappa è Saur-Mogila. Vicino alla bancarella dove mangiamo vendono dei fiori, e chiedo ad Olga se posso prenderne un po’ e se non sarebbe scorretto che io, tedesco, vada là senza esprimere rispetto per i soldati sovietici. Le chiedo quali fiori dovrei prendere. “Garofani rossi” risponde, come da tradizione. “Ma che siano in numero pari”. “Pari?” chiedo, “Ho sempre pensato che i fiori dovessero essere dispari”. “Dispari per i vivi, pari per i morti” mi risponde, anche se non sa perché. Allora lo chiediamo a Stanislava, la quale è un po’ sorpresa del fatto che abbiamo bisogno di lei in quanto civile, e ci dice che i fioristi pensano che il numero dispari simboleggi la possibilità di felicità.

Saur-Mogila
Il panorama cambia lungo la strada per Saur-Mogila, e guidiamo attraverso nude colline. Ci sono alberi, ma non foreste. A circa un chilometro dal monumento, la strada diventa un vicolo di betulle, alcune delle quali incenerite. Anche qui, come a Donetsk, sotto il monumento c’è una piattaforma con vecchie armi, e mi chiedo cosa le sia successo durante le battaglie della scorsa estate. È stata difesa? È stata usata e poi riportata qui per tornare a riposarsi? O questi pezzi sono già stati ricambiati? Sola una cosa è inimmaginabile – che sia stata qui durante le battaglie e sia rimasta intatta.
Saliamo dei gradini rotti in un vento implacabile. Mi guardo attorno alla ricerca di un posto dove lasciare i garofani e noto che il posto migliore è sotto il grande stivale di metallo, l’unica parte rimasta intatta del monumento che un tempo incoronava la collina. Un numero pari di garofani rossi per il monumento alla vecchia battaglia, e un numero pari per le recenti tombe dietro di esso; lo stesso posto, lo stesso nemico. Più avanti l’immagine di un soldato sovietico di uno dei rilievi distrutti sembra uscire strisciando dai detriti. Fra queste parti del monumento passa la trincea dello scorso anno. Passato e presente si fondono insieme, è davvero un luogo di mezzo.
Il marito di Stanislava, ceceno, che è la nostra seconda guardia, scherza con noi guidando l’auto che accompagna il nostro autobus su per la collina, sull’erba dietro alle scale, e poi superandoci mentre scendiamo. Noi ci precipitiamo giù, ma delle nuvole nere riescono a raggiungerci prima che noi raggiungiamo l’autobus, con un altro carico di grandine.
Nel frattempo mezza dozzina di grandi autobus è giunta alla piattaforma situata alle pendici della collina, è la seconda volta che incontriamo il battaglione Vostok oggi. Questa volta è un gruppo composto perlopiù da adolescenti, che salgono sulla collina in modo cerimonioso, con striscioni di vittoria.
Ce li lasciamo alle spalle e partiamo per Stepanovka, un paese lì vicino. Qui quasi nessuna casa è rimasta in piedi. Quelle che sono state lasciate intatte sono belli edifici bianchi e blu, con fiori gialli che decorano i muri. Il Settore Destro aveva stabilito qui il suo quartier generale, ci spiegano, e il fratello di Iarosh si divertiva a guidare avanti e indietro lungo la strada, in un carro armato, sparando alle case. Il Turco va più avanti, camminando nelle rovine, e si china davanti a una bomba non esplosa completamente, anche se quest’area non è stata ancora bonificata del tutto.
Tornati in albergo, trascorriamo una notte tranquilla. Ma i luoghi che abbiamo visitato il mattino sono bombardati ancora una volta. In ogni caso, se è successo qualcosa ai tulipani, sono certa che ne pianteranno di nuovi.
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Articolo di Dagmar Henn apparso su Saker.is il 21 aprile 2015
Traduzione in italiano di Paola Ugo per SakerItalia.it
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