Tratta dal lungo elenco dei martiri del Donbass, ecco la storia di Diana Prokofevna Nikiforova, residente nella regione di Liman, classe 1941.

Così come la grande maggioranza della popolazione della regione, Diana ha partecipato al referendum del maggio 2014, organizzato in tutto il Donbass, e che ha incontrato un grandissimo entusiasmo popolare. La questione posta era molto semplice: la proclamazione della Repubblica Popolare di Donetsk e la secessione dall’Ucraina completamente impazzita dopo la rivoluzione del Maidan sponsorizzata dagli americani.

Non pensava che le cose avrebbero poi preso quella piega: l’invio di parte di Kiev di truppe e di battaglioni punitivi, gli assassinii e i massacri, l’inizio di una guerra.

Nata durante la Seconda Guerra Mondiale in piena occupazione nazista, questa figlia del Donbass ha rivissuto gli stessi eventi più di settant’anni dopo. La sua ostinazione nel rimanere russa, avendo vissuto gli anni d’oro dell’Unione Sovietica, non è diminuita nemmeno dopo essere stata arrestata e torturata da parte della polizia politica dello SBU.

Gorbaciov e la sua banda ci hanno tradito e hanno distrutto il nostro Paese. Diana ha avuto la sventura di assistere all’arrivo degli ultranazionalisti sui carri armati, alle loro minacce urlate spesso con un accento ucraino occidentale. Alla sua età, l’unica cosa di cui la povera donna era armata era la sua scheda elettorale e un voto per la libertà. Le avevano detto che faceva parte di una sotto-razza in Ucraina, quella dei russi, la cui lingua non era più riconosciuta e la cui storia e civiltà erano denigrate.  Racconta:

Sono nata nel Donbass da una famiglia modesta, e ci ho vissuto tutta la mia vita. Eravamo tre figli, mio padre lavorava sodo e mia madre era casalinga. Ho studiato ingegneria all’Università di Donetsk per diventare uno specialista in costruzioni. Ho lavorato tutta la vita nella pubblica amministrazione, dove ho sviluppato progetti e costruzioni di diversi edifici e strutture pubbliche. Mi sono sposata, ho avuto figli e vissuto una vita molto felice con mio marito. La fine dell’Unione Sovietica per noi è stata una tragedia, prima vivevamo bene, e fu subito chiaro che la vita sarebbe diventata molto difficile. Per noi, Gorbaciov e la sua banda erano tutti traditori, era un colpo dell’Occidente. Anche se l’Unione Sovietica non era perfetta, aveva comunque tanti aspetti positivi.

Poi venne l’Ucraina e il suo lento degrado. Abbiamo visto la corruzione, gli oligarchi, la sofferenza della gente comune e il collasso del livello di vita di un paese che era stato ricco, specialmente il Donbass. Ho assistito con preoccupazione all’ascesa del fascismo e del nazionalismo nell’ovest del paese, all’incompetenza ed alla compromissione dei nostri presidenti, persino al loro tradimento dopo la salita al potere di Yushchenko nel 2005. All’epoca ero già in pensione e con mio marito ci eravamo trasferiti nell’area di Liman per riavvicinarci alle nostre origini.

Avevo votato con speranza per Yanukovich nel 2010, ritenendolo per noi una scelta migliore, visto che era anche lui un figlio del Donbass. Quando arrivò il secondo Maidan dell’inverno 2013/14. Capii che era un fatto grave, soprattutto dopo che le rivolte e gli ultranazionalisti lo fecero scappare.

Quello che è successo dopo è ben noto.

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Denunciata, accusata ingiustamente e torturata dalla polizia politica.

Diana continua la sua storia, stringendo nelle mani una copia della Komsomolskaya Pravda, dove con orgoglio mi dice che Yulia Andrienko le ha dedicato un articolo e raccontato la sua storia. Poi, rammenta l’inferno che ha passato a causa di una denuncia, il cui autore tuttora non conosce.

Dopo l’arrivo dei nazisti e dei nazionalisti ucraini abbiamo vissuto in uno stato di continua attesa e tensione. Continuavo a guardare le trasmissioni russe, anche se Kiev le aveva proibite. Era rischioso, ma alla mia età non hai paura nemmeno di morire.

Non avevo preso parte alla resistenza nel Donbass, ma un giorno di dicembre 2015 arrivarono delle auto ed un furgone. Era ancora buio, erano circa le 5 del mattino quando sfondarono la mia porta ed entrarono furiosamente. C’erano soldati mascherati dello SBU con armi automatiche, e ufficiali in borghese che mi dissero essere agenti dello SBU. Rivoltarono la casa come un calzino per cinque ore. Non subii subito violenza fisica, anche se furono molto violenti verbalmente, urlando ordini e insulti. Mi chiesero se avessi partecipato al referendum, e io risposi di sì, perché era mio diritto. Guardandomi con rabbia mi chiesero dove fossero le chiavette USB. Secondo loro passavo informazioni ai ribelli di entrambe le repubbliche usando delle chiavette USB ed ero separatista, e m’insultarono malamente.

Le maschere lasciavano vedere occhi cattivi e capivo che ero in pericolo. Ma non trovarono nulla, nonostante la ricerca minuziosa.  Poi mi chiesero dove fosse il mio computer. Risposi che era in riparazione in un negozio a Liman.

Poi mi caricarono in un furgone, andammo a prendere il computer e mi portarono a Mariupol dove mi gettarono immediatamente in una cella. C’erano quattro omoni con le facce scoperte. Mi presero a pugni per tre ore su tutto il corpo, specialmente in testa. A un certo punto non ebbi più forza nemmeno per rispondere alle loro stupide domande e svenni. Mi portarono dentro dei locali sotterranei dove venni imprigionata.

C’erano solo prigionieri comuni lì, e tutti si dispiacquero molto per le condizioni in cui mi trovavo. Ma ebbi anche fortuna perché il mio caso, per qualche motivo, venne a conoscenza della Croce Rossa. Proprio il giorno dopo, una loro donna e un loro uomo vennero con un interprete per dirmi che non sarei stata più picchiata e in caso di ulteriori problemi avrei potuto rivolgermi a loro. Infatti, anche se poi m’interrogarono di nuovo per quindici giorni e mi riportarono alla sede dello SBU a Mariupol, non fui più tenuta nei sotterranei.

Non ottennero nulla, dato che non avevo mai preso parte alla resistenza, né passato alcuna chiavetta USB a nessuno. Restai in prigione per otto mesi. Il cibo era terribile. Avevo un avvocato, e dato che non avevano niente contro di me, né il computer conteneva segreti, venni assolta e rilasciata immediatamente. Tuttavia, non ho mai ricevuto scuse né risarcimenti per quei mesi in prigione.

Ritornai a casa e come tutti iniziai a pregare perché arrivassero i russi. Fu una vera gioia quando arrivarono! Era lo scorso giugno, e avrei voluto abbracciarli tutti, nonostante la distruzione e le lunghe settimane passate nel buio delle cantine e sotto i bombardamenti.

Diana conclude la sua storia raccontandomi che è rimasta comunista, e che non cambierà quello che pensa a 81 anni. Mi spiega che secondo lei la Russia non si deve fermare in Novorussia, ma deve andare avanti a distruggere gli ultranazionalisti fin nel loro covo a Leopoli. Con parole dure, ma senza odio, continua ad offrirmi la sua visione delle cose ringraziando continuamente i “ragazzi russi” e il Presidente Vladimir Putin per essere finalmente venuti a liberarli dall’occupazione ucraina.

Ha vissuto in un piccolo villaggio vicino ad una grande foresta del Parco Nazionale di Sviatogorsk, che ora è diventato troppo pericoloso per lei. Con altri rifugiati è stata portata in una confortevole casa di proprietà di una persona facoltosa che ha preferito andarsene in Europa ma che, prima di partire, ha dato le chiavi di casa ad un poliziotto chiedendogli di mettere a disposizione la casa ai poveri, così che abbiano riparo e un po’ di sicurezza. Per la verità, sicurezza relativa, essendo che il fronte dista solo pochi isolati. Parte della notte che ho passato con loro è stata disturbata da bombe che ogni tanto cadevano qui e là nei dintorni.

“Sono sicura che non ritorneranno più. Una volta che i nostri ragazzi li hanno cacciati, è per sempre” conclude donandomi il suo più bel sorriso.

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Articolo di Laurent Brayard pubblicato su Donbass Insider il 30 agosto 2022
Traduzione in italiano di DS per SakerItalia 

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