Un ritorno alla diplomazia: passiamo al vaglio questo concetto. Tra tutte le promesse che il Presidente Joe Biden non manterrà nei prossimi quattro anni, questa si rivelerà la più disonesta e, in ambito più ampio, la violazione che avrà più conseguenze.

Dalla scorsa settimana, è la crisi sull’accordo che disciplina i programmi nucleari dell’Iran che si pone come prova della verità di questo giudizio. A quanto sembrava, domenica Teheran ha fatto capire all’amministrazione Biden che aveva due settimane per prendere sul serio il rientro nei negoziati diplomatici, dopo di che si sarebbe chiusa la finestra di questa possibilità. Come ho già chiarito precedentemente su questo sito [in inglese], non vedo alcuna evidenza che gli addetti alla sicurezza nazionale di Biden si dimostreranno sia seri che saggi nell’affrontare tale fondamentale questione.

In verità, c’è poco a cui tornare se parliamo di diplomazia americana. Il defunto e stimabile Boutros Boutros-Ghali lo ha spiegato memorabilmente in “Unvanquished[“Invitto”], le memorie che ha pubblicato nel 1999 dopo che gli Stati Uniti lo hanno estromesso dalla carica di Segretario Generale dell’ONU perché non era sufficientemente servile. “Solo i deboli fanno affidamento sulla diplomazia” ha scritto il celebre egiziano “Gli Stati Uniti ne vedono una scarsa necessità, perché il potere è sufficiente”.

Correttissimo. Come ha approfondito il colto Boutros–Ghali “L’Impero Romano non aveva alcun bisogno della diplomazia. Nemmeno gli Stati Uniti: la diplomazia è percepita da un potere imperiale come una perdita di tempo e di prestigio, un segno di debolezza”.

Questa è la tradizione a cui tornerà l’amministrazione Biden. Chiamiamola la diplomazia della non diplomazia.

Boutros Boutros-Ghali (a sinitra) e l’isreliano Moshe Dayan al Consiglio d’Europa a Strasburgo, nell’ottobre 1979. (Claude Truong-Ngoc, Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0)

Ora si parla molto di demilitarizzare la politica estera americana, ed è un bene che sia finalmente permesso sollevare la questione in una conversazione educata. “Più e più volte abbiamo visto come l’eccessiva dipendenza dagli strumenti militari ci possa portare nelle sabbie mobili politiche” ha detto William Burns, diplomatico di carriera e ora nominato Direttore della CIA, in una intervista della primavera scorsa al The Foreign Service Journal. “Di volta in volta siamo caduti nella trappola dell’uso eccessivo (o prematuro) della forza. Questo tende a rendere la diplomazia un’alternativa distorta e con poche risorse”.

I pensieri sono corretti, sicuramente, ma esorto chi pensa che le osservazioni di Burns abbiano qualcosa a che fare con la direzione della nuova amministrazione, di moderare le proprie aspettative. E’ la politica a dirlo, non è come l’amministrazione Biden intende condurre la politica.

L’Iran come primo indicatore

La questione iraniana era destinata ad essere un primo indicatore dei principi della politica estera del Presidente Biden (anche se è la mia parola). Teheran ora sembra determinata, in maniera del tutto corretta, a forzare il tema. Bene, dico. Prima capiamo cos’è questa amministrazione, meglio è.

Il Piano d’Azione Congiunto Globale, comunemente noto come Accordo sul Nucleare Iraniano, aveva rimosso le sanzioni americane e internazionali a seguito della riduzione della produzione di uranio impoverito da parte dell’Iran, sotto il monitoraggio rafforzato dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. L’AIEA ha più volte riferito che l’Iran si atteneva alla sua parte dell’accordo. Dato che il Presidente Donald Trump si è ritirato da questo accordo, firmato da sei nazioni, nel 2018, l’intento dichiarato di Biden durante la campagna elettorale presidenziale era quello di riportare gli Stati Uniti tra i firmatari.

Era però evidente fin dall’inizio che era improbabile che la promessa di Biden si dimostrasse politica, soprattutto perché gli Israeliani hanno chiarito che, se Biden fosse entrato alla Casa Bianca, non avrebbero accettato alcun esito di questo tipo.

Ora osserviamo come Biden e i suoi addetti alla politica estera consentano di fatto ad Israele di dettare le condizioni con cui Biden può mantenere la sua promessa elettorale.

Il Segretario di Stato Antony Blinken saluta gli impiegati al suo arrivo al Dipartimento di Stato il 27 gennaio (State Department, Ron Przysucha)

Ora come ora la leadership israeliana è divisa, ma solo dal punto di vista tattico. Dieci giorni fa Aviv Kohavi, il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, ha detto [in inglese] che Washington dovrebbe adottare la politica di Trump e ripudiare l’accordo nella sua totalità. Ma Yussi Cohen, capo del Mossad e confidente del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, sta ora definendo i piani per consultarsi con Washington alla fine del mese insieme a Biden, al direttore della CIA Burns e a Jake Sullivan, il Consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale.

Avrà la meglio Cohen, il quale sa molto bene che Biden sta per dare a Tel Aviv il potere di veto sulla politica iraniana. Ora noi stiamo per assistere a un caso da manuale della diplomazia della non-diplomazia.

Teheran chiede all’amministrazione Biden di revocare la sanzioni punitive che Trump aveva imposto dopo aver ritirato gli Stati Uniti dall’Accordo, come unica condizione per la riapertura dei colloqui. Date le circostanze, un gesto di buona volontà di questo tipo è tutt’altro che una richiesta stravagante. Sullivan e il Segretario di Stato Antony Blinken hanno però messo abbondantemente in chiaro che gli Stati Uniti faranno questo passo solo dopo che l’Iran tornerà a rispettare i limiti dettati dell’Accordo.

Tradotto: comportatevi secondo le nostre richieste prima di avviare i negoziati sulle nostre richieste. In altre parole, la posizione degli Stati Uniti è intesa come un’offerta che l’Iran non può assolutamente accettare.

Da notare che Blinken ha cominciato a cambiare la sua storia dall’udienza di nomina [in inglese] al Senato, il giorno prima dell’insediamento di Biden. Ha avvisato l’assemblea dei senatori che “il tempo necessario all’Iran per produrre abbastanza materiale fissile per un’arma, è passato da più di un anno (quando c’era l’Accordo sul Nucleare Iraniano) a circa tre o quattro mesi, in base all’ultimo rapporto pubblico”. In un’intervista [in inglese] del 31 gennaio alla NBC News, ha detto che questo arco temporale si potrebbe ridurre a “una questione di settimane” se l’Iran continuasse a produrre uranio a basso arricchimento al suo ritmo attuale.

Secondo la mia ipotesi, Blinken sta affilando la sua retorica in previsione dei colloqui con Yossi Cohen, che ora sono una questione di una o due settimane. L’accresciuto senso di allarme giustificherà quindi l’accettazione di quelle che saranno sicuramente le richieste molto stringenti che Israele imporrà all’amministrazione Biden. Persa in tutto ciò che Blinken enuncia c’è, ovviamente, la dichiarazione di vecchia data dell’Iran (verificata da un rapporto della National Intelligence durante la presidenza del secondo Bush), secondo cui questo paese non ha né programmi né piani di sviluppare armi nucleari.

Mohammad Javad Zarif, il Ministro degli Esteri iraniano e, secondo me, uno dei più capaci diplomatici ora in attività (l’altro è Sergey Lavrov, il Ministro degli Esteri russo), non è altro che creativo. La scorsa settimana ha proposto di agire contemporaneamente: l’Iran tornerà ad essere conforme mentre gli Stati Uniti toglieranno le sanzioni.

Secondo la dichiarazione di Zarif riportata [in inglese] da Al Jazeera, l’Unione Europea, nella persona di Josep Borrell, il Ministro degli Esteri de facto, può “orchestrare le azioni. In sostanza, ci può essere un meccanismo per sincronizzare e coordinare ciò che si può fare”.

Potreste chiedervi che cosa c’è che non va. Dovreste chiederlo agli addetti di Biden per la politica estera, perché hanno declinato l’offerta.

“Se l’Iran tornerà in piena conformità con i suoi obblighi previsti nell’Accordo sul Nucleare Iraniano, gli Stati Uniti faranno la stessa cosa” ha risposto il giorno seguente il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price “e poi lo considereremmo una base su cui costruire un accordo più lungo e forte che affronti anche altre aree critiche”.

Il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price durante una conferenza stampa di questo mese (State Department, Ron Przysucha)

Che ciarlatano. Non è nulla di più che il classico tonto arrogante e sfacciato degli ottusi con troppo potere: Blinken ha usato per mesi queste stesse frasi alla lettera. E’ un altro modo per dire che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di cambiare la loro posizione anche quando hanno a disposizione una modalità reciprocamente soddisfacente a causa di un’impasse diplomatico.

Non c’è nulla di nuovo in questo. E’ la nuova versione della Corea del Nord, giusto per citare uno dei tanti casi: Washington è stata impegnata nella diplomazia della non-diplomazia con Pyongyang per gran parte degli ultimi 70 anni, offrendole un “accordo” dopo l’altro con lo scopo di accelerare il rifiuto della Corea del Nord.

In effetti, durante l’udienza di nomina al Senato di poche settimane fa, Blinken ha chiarito che questo è precisamente come lui propone di affrontare la questione nordcoreana: utilizzare le sanzioni e la minaccia della forza per affrontare la Corea del Nord con offerte inaccettabili, quindi lanciarle come intrattabili.

Questa assurdità non durerà per sempre nel corso del nostro nuovo secolo.

Nel caso dell’Iran, il tempo sta passando velocemente. In evidente risposta al rifiuto di Washington alla proposta di Zarif, domenica la Guida Suprema Ali Khamenei ha così descritto la posizione finale di Tehran:

“Se vogliono che l’Iran torni ai suoi impegni… l’America deve revocare tutte le sanzioni, non solo a parole o sulla carta: devono essere revocate di fatto, poi noi verificheremo e vedremo se le hanno revocate correttamente, e quindi noi torneremo ai nostri impegni”.

La notizia dell’agenzia France Press, che riporta la citazione da un discorso televisivo, fa presagire che l’Iran, in ottemperanza ad una legge approvata dal Majles [il Parlamento iraniano] nello scorso dicembre, il 21 febbraio potrebbe espellere tutti gli ispettori dell’Accordo sul Nucleare Iraniano se gli Stati Uniti non verranno incontro alle sue richieste.

La diplomazia della non-diplomazia non è diplomazia. E’ una pantomima recitata da stupidi buffoni, il cui intento è quello di coprire la dipendenza americana dalla forza militare.

Ora, in maniera postuma e rispettosa, devo correggere Boutros-Ghali: le nazioni potenti sono spesso deboli, la storia è colma di esempi. E’ una condizione dell’America dopo sette decenni di compiacimento: siamo troppo deboli (e deboli di carattere) per gestire una cosa come la diplomazia.

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Articolo di Patrick Lawrence pubblicato su Consortium News l’8 febbraio 2021
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per Saker Italia.

[I commenti in questo formato sono del traduttore]


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