I media occidentali amano parecchio le rare e scarse azioni di protesta da parte degli oppositori russi. Hanno diffuso la foto dei gioiosi studenti che si facevano i selfie all’interno del furgone della polizia, o del poliziotto che porta via da una manifestazione una ragazza sorridente e l’accompagna diligentemente prendendola dallo zaino, così come i grandi articoli sulla repressione da parte del regime totalitario in Russia. Seguono anche appelli concitati di varie figure europee con la richiesta di garantire “il diritto ai cittadini di protestare”. In Francia già da alcune settimane sono scoppiati gravi scontri tra i contestatori dei “Gilet Gialli[in inglese] e la polizia. Qui c’è tutto: lacrimogeni, manganelli, proiettili di gomma, arresti di massa, idranti e feriti gravi tra i manifestanti. Però niente selfie nel furgone della polizia, e nessun appello alle autorità francesi da parte dei leader stranieri, con la richiesta di tenere sotto controllo la polizia. Solo Maria Zakharova [in inglese],  rappresentante del Ministro degli Affari Esteri Russo, ha sollecitato Parigi a “trattenersi dall’uso eccessivo della forza”.

E perché tacciono tutti quegli attivisti dei diritti umani che in maniera così accesa affermano “il diritto delle persone a protestare” in Russia o in quei paesi in cui l’Occidente ha dato il via alle “rivoluzioni colorate”?

Risponderemo a questa domanda facendo un esempio. La figura mediatica di Bernard-Henri Levy [in inglese], che si definisce filosofo, è in questo caso un esemplare rivelatore. Il suo nome è ben noto ai cittadini di quei paesi in cui l’Occidente è riuscito a rovesciare il governo e a organizzare ogni tipo di massacro. Appena inizia una nuova “rivoluzione colorata” da qualche parte, è sicuro che spunta Levy. Si è distinto per il suo sostegno all’invasione dell’Afghanistan, alla guerra civile in Yugoslavia, all’invasione della Georgia nell’Ossezia del Sud e alla “primavera araba”. E’ stato attivissimo nello spingere l’Occidente nel “bombardamento umanitario” della Libia, dopo di che se ne è andato gioiosamente su e giù per una Bengasi distrutta promettendo: “Noi porteremo ai Libici la società civile e la democrazia”. Il risultato è noto a tutti: la Libia è stata gettata nella guerra civile, con moltissime vittime e rovine ovunque.

E cosa ha fatto Levy? Dopo che la “democratica” Libia, che era già stata distrutta con il suo appoggio, gli ha proibito di entrare nel paese, lui ha bruscamente perso interesse per questo ambito ed è passato all’Ucraina. E’ difficile trovare una figura occidentale che possa essere così attiva nel sostenere i fatti di Maidan a Kiev nel 2014 e il regime di Poroshenko. Parlando sulla piazza piena di bandiere banderiste e decorata con le svastiche, “wolfsangel” e ritratti di Bandera, il “filosofo” non ha notato assolutamente alcun nazista, anzi, nello stesso momento ha partorito l’articolo “Siamo tutti ucraini”. Nel 2015 è diventato il co-fondatore della Agenzia per la Modernizzazione in Ucraina. Per inciso, da allora nessuno ha sentito parlare di questa agenzia.

Quando si trattava di rovesciare la “leadership sbagliata” di Libia e Ucraina, Levy ha affermato il diritto alla rivolta, dichiarando con pathos: “i diritti umani non hanno confini: ogni persona è un mio vicino, anche se vive a Timor, nel Darfur o in Libia”.

Ma per lui ora è arrivato il tempo della rivolta nella sua Francia nativa, proprio fuori dalle sue finestre: ma è come se fosse una persona completamente diversa.

Levy ha attivamente sostenuto l’uso dei gas lacrimogeni contro i “gilet gialli”. E ha definito “ipocriti[in francese] coloro che hanno cominciato a criticarlo per questo. E’ particolare che nello stesso momento abbia considerato il caso della città siriana di Ghouta – la provocatoria messa in scena dei “Caschi Bianchi” – come reale avvelenamento da gas. Cioè: per il liberale europeo e amico di George Soros, questo evento inscenato nella lontana Siria è un vero crimine rispetto al vero odore di gas che si sente nei corridoi di casa sua da qualche parte nel centro di Parigi.

Levy & Co. Il 6 dicembre facevano finta di non notare gli arresti di massa degli studenti in varie città francesi. Hanno semplicemente ignorato il filmato con i poliziotti che costringevano gli studenti del liceo nella città di Mantes-la-Jolie a inginocchiarsi, dopo averli ammanettati [in francese] e averli costretti a tenere le mani dietro la testa. Quel giorno Henri-Levy si è limitato a un tweet: “Se Macron parla o meno (con la gente, ndr), se siamo d’accordo o meno, se sosteniamo le sue riforme o siamo contrari, niente di questo ora ha importanza. Di fronte alla crescita di fascisti (a Maidan, come ricordiamo, non c’era alcun fascista ma a Parigi Levy ne ha notati, ndr), di fanatici e di nemici dello Stato, noi abbiamo una sola via d’uscita: sostenere il presidente Macron”.

[Che Macron parli o meno, che siamo d’accordo o meno con lui, a favore o meno delle sue riforme, non ha importanza in questo momento. Di fronte all’ascesa di fascisti, faziosi e nemici della Repubblica, solo un’opzione è degna: #SupportAuPresidentMacron]

In generale: questo è il normale comportamento di un tipico rappresentante dell’establishment liberale occidentale. Se è necessario sostenere la rivolta “corretta”, parlerà delle lacrime di un bambino, chiederà di allontanare le forze dell’ordine dalle strade e simpatizzerà con la folla infuriata. Ma quando si tratta di un esponente di questo establishment al potere, allora ogni rivolta diventa a priori “scorretta”, ed è soggetta alla più severa persecuzione.

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Articolo di Vladimir Kornilov pubblicato su Stalkerzone.org  il 10 dicembre 2018
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per SakerItalia.it

[le note in questo formato sono del traduttore]

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