La frangia che sta portando avanti l’insensata distruzione fine a se stessa ha imparato la tattica dai black block europei.

I manifestanti superano un incendio durante gli scontri di domenica 15 settembre con la polizia antisommossa a Hong Kong. La polizia antisommossa di Hong Kong ha usato gas lacrimogeni e idranti contro gli irriducibili delle proteste pro-democrazia, che hanno lanciato sassi e molotov il 15 settembre, facendo ripiombare nel caos la città sconvolta dalle violenze, dopo una breve calma negli scontri. Photo: AFP / Anthony Wallace
Che cosa sta succedendo nel cuore di Hong Kong? Per chi ci ha vissuto e ha profondi legami culturali ed emotivi con il “Porto Profumato”, è piuttosto difficile inquadrare la situazione nell’ambito di una fredda logica geopolitica. Il Maestro regista Wong Kar-Wai una volta ha detto che quando gli venne l’idea di “Happy Together”[in inglese], decise di girare la storia dei suoi personaggi a Buenos Aires perché era il posto più lontano possibile da Hong Kong.
Poche settimane fa stavo camminando nelle strade della lontana Buenos Aires e sognavo Hong Kong. Quella Hong Kong a cui Wong Kar-Wai fa riferimento nel suo capolavoro, non esiste più. Senza purtroppo le ipnotiche immagini di Christopher Doyle, mi sono ritrovato a tornare ad Hong Kong per cercare, alla fine, quella città che sapevo non esistere più.
Ho cominciato il mio viaggio nel mio ex quartiere Sai Ying Pun: vivevo in uno studio all’interno di una torre cantonese standard, stretta e superaffollata (ero l’unico straniero) dall’altra parte della strada rispetto alla bella St Louis School in stile art déco non molto lontano dall’Università di Hong Kong. Sebbene disti solo 20 minuti a piedi sulle colline da Central, il cuore politico ed economico della città, Sai Ying Pun è abitato soprattutto dalla classe media con bassi salari da classe lavoratrice, solo recentemente avviata verso la “gentrificazione” a seguito dell’apertura di una stazione della MTR, la metropolitana di Hong Kong.
Dall’altra parte del porto di Kowloon c’è Mongkok, la cui alta densità della popolazione non è misurabile: è il paradiso dei piccoli e frenetici affari di Hong Kong, sempre affollata di studenti in cerca di affari alla moda. Al contrario, Sai Ying Pun è una sorta di languido scorcio della Hong Kong anni ’50: poteva essere stata benissimo il set di un film di Wong Kar-Wai.
Dai pensionati fino alla signora Ling, la donna della lavanderia che sta sempre lì ma senza la sua precedente grande comunità felina (“a casa!”), il ritornello è unanime: sì, le proteste, ma devono essere pacifiche. La notte prima a Kowloon avevo sentito storie sconvolgenti di insegnanti che facevano il lavaggio del cervello agli scolari della scuola elementare sulle marce di protesta. Non alla St Louis, mi hanno detto.
L’Università di Hong Kong è un’altra storia. Un focolaio della protesta, in parte illuminata, in cui va di moda nelle scienze umanistiche analizzare la Cina come una “dittatura perfetta”, in cui il Partito Comunista Cinese non ha fatto altro che dare impulso ad un esplicito nazionalismo, militarismo e “ostilità” nella propaganda e nella relazione con il resto dell’Asia.
Come si raggiunge Central, la matrice dell’iper-turbo-capitalismo di Hong Kong, i “manifestanti” si dissolvono in una massa di persone, inadatte agli affari, che dicono parolacce, non ammesse nei ristoranti della vecchia e compassata Mandarin e della più vistosa Mandarin Oriental, il quartier generale, disegnato dagli architetti Norman Foster e I.M. Pei, della HSBC e della Bank of China e delle sedi di JP Morgan (con un elegante outlet di Armani al piano di sotto) o dall’ultra-esclusivo China Club, il preferito dei vecchi ricchi di Shanghai.
Prada incontra la lotta di classe
E’ nei fine settimana, soprattutto la domenica, che a Central esplodono tutte le contraddizioni interne di Hong Kong e del turbo-capitalismo. Da decenni le cameriere filippine organizzano un sit-in improvvisato, una sorta di innocua “Occupy Central” in lingua filippina tagalog e sottotitoli in inglese, che si svolge ogni domenica. Dopotutto non hanno alcun parco pubblico dove riunirsi nel loro giorno libero, quindi occupano la volta della HSBC e campeggiano allegramente sul marciapiede difronte alla boutique di Prada.
Parlargli delle proteste equivale ad un dottorato di ricerca in lotta di classe: “Siamo noi che dovremmo avere il diritto di protestare per i nostri miseri salari e per il trattamento disgustoso che riceviamo dalle nostre signore cantonesi” – dice una madre con tre figli, originaria di Luzon (il 70% della sua paga lo manda a casa) – “Questi ragazzi sono così viziati, che vengono cresciuti come se fossero dei piccoli re”.
Praticamente, tutti a Hong Kong hanno una ragione per protestare. Prendiamo le squadre di pulizia, che, come la domenica, devono fare il lavoro pesante dopo tutto il gas lacrimogeno, i bidoni bruciati, i mattoni e i vetri rotti. Il loro salario mensile equivale a 1.200 dollari americani, rispetto al salario medio di Hong Kong che è di circa 2.000 dollari. Orribili condizioni di lavoro sono la norma: sfruttamento, discriminazione (molti appartengono a minoranze etniche e non parlano né il cantonese né l’inglese) e nessun tipo di previdenza sociale.
Per quanto riguarda la frangia ultra-sottile che sta portando avanti l’insensata distruzione fine a se stessa, i membri hanno sicuramente imparato la tattica dai black block europei. Domenica hanno dato fuoco ad una delle entrate ultra-congestionate della stazione Wanchai, e hanno rotto i vetri ad Admiralty. Ecco la “strategia”: bloccare i nodi della metropolitana, perché paralizzare l’aeroporto di Chek Lap Kok, uno dei più trafficati al mondo, non funzionerà più dopo la chiusura del 12/13 agosto che ha cancellato circa 1.000 voli e ha causato un brusco calo dei passeggeri in arrivo da Cina, sud-est asiatico e Taiwan.
Due anni fa ad Amburgo sono state schierate le forze speciali [in inglese] contro i black block. In Francia, il governo sguinzaglia di continuo la temuta CRS [in francese] [Compagnie Républicaine de Sécurité] contro i relativamente pacifici Gilet Gialli, munita di gas lacrimogeni, idranti e con l’appoggio degli elicotteri, senza che nessuno protesti e invochi i diritti umani. La CRS usa proiettili di gomma [in francese] anche contro i giornalisti.
Per non parlare del fatto che ogni occupazione degli aeroporti Charles de Gaulle, Heathrow o JFK sia semplicemente impensabile. Chek Lap Kok, in un giorno feriale, è ora stranamente tranquillo. La polizia controlla gli ingressi e i passeggeri che arrivano dal treno veloce Airport Express ora devono mostrare il passaporto e la carta d’imbarco prima di essere ammessi al terminal.
Come prevedibile, i resoconti da parte dei media occidentali, si concentrano sulla frangia radicale, così come sul consistente contingente della quinta colonna. Questo fine settimana poche centinaia di persone hanno inscenato una mini-protesta davanti al consolato britannico chiedendo, in sostanza, di ricevere asilo. Alcuni di loro sono titolari di passaporti British National Overseas (BNO) [cittadinanza britannica dei territori d’oltremare], che sono di fatto inutili in quanto non garantiscono il diritto di lavorare o di risiedere nel Regno Unito.
Altri membri della quinta colonna hanno passato il loro fine settimana sventolando bandiere di Gran Bretagna, Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Polonia, Corea del Sud, Ucraina, Stati Uniti, Taiwan, e, ultima ma non meno importante, la bandiera coloniale di Hong Kong.
Conosciamo la specie “homo” di Hong Kong
Chi sono queste persone? Bene, questo ci porta necessariamente ad un corso intensivo sulla specie “homo” di Hong Kong.
Non molte persone di Hong Kong possono indicare degli avi che abitassero qui prima della Guerra dell’Oppio del 1841 e del conseguente governo dell’impero britannico. Molti non sanno un gran che della Repubblica Popolare Cinese, quindi, essenzialmente, non c’è alcun rancore. Possiedono le proprie case, il che significa, fondamentalmente, che sono lontani dal problema numero uno di Hong Kong: un mercato immobiliare folle e speculativo.
Poi ci sono le elite della vecchia Cina, persone cioè che sono fuggite dopo la vittoria di Mao nel 1949. All’inizio era gli orfani di Chiang Kai-shek, poi si sono concentrati nell’odiare il Partito Comunista per vendetta. La stessa cosa vale anche per la loro progenie. I super ricchi si ritrovano al China Club. I meno ricchi si possono almeno permettere gli appartamenti da 5 milioni di dollari sulla collina Vittoria Peak. Il Canada è la meta preferita, quindi Hong-Couver è una parte sostanziale di Vancouver. Per loro Hong Kong è essenzialmente una fermata di passaggio, come una lussuosa sala d’aspetto.
E’ questo il – grande – gruppo di persone che sta dietro le proteste.
Lo strato più basso delle elite “fuga dalla Cina” sono i rifugiati economici del 1949. Bella sfiga: ancora oggi non possiedono proprietà e non hanno risparmi. Un gran numero dei ragazzini facilmente manipolati, che sono scesi nelle strade di Hong Kong vestiti di nero e cantando “Gloria a Hong Kong” con il sogno dell’“indipendenza”, sono i loro figli e le loro figlie. E’ sicuramente un cliché ma nel loro caso è applicabile: intrappolati tra Est e Ovest, tra stile di vita all’americana fatto di steroidi e l’attrazione della cultura e della storia cinese.
Il cinema di Hong Kong, con tutto il suo dinamismo pulsante e la creatività esilarante, può offrire la metafora perfetta per capire le interne contraddizioni del Porto Profumato. Il capolavoro di Tsui Hark datato 1992 “New Dragon Gate Inn” [in inglese], con Donnie Yen e la meravigliosa Maggie Cheung, si basava su ciò che successe secoli fa in un passaggio cruciale dell’Antica Via della Seta.
Qui potremmo collocare Hong Kong, come la locanda tra il dispotismo imperiale e il deserto. All’interno, troviamo i fuggiaschi imprigionati tra il loro sogno di fuga verso “Occidente” e i proprietari cinicamente sfruttatori. Questo si collega con lo spettrale terrore esistenziale alla Camus del moderno “homo” di Hong Kong: presto sarà obbligato ad essere “estradato” nella cattiva Cina prima di avere la possibilità di ottenere la garanzia di un asilo politico da parte di un benevolo Occidente. Una mitica frase del personaggio di Donnie Yen riassume tutto questo: “La pioggia sulle montagne del Cancello del Dragone fa scendere a valle la tigre Xue Yuan”.
Bello essere un tycoon
Il dramma messo in scena ad Hong Kong è in realtà una micro-rappresentazione del quadro generale: un iper-capitalismo neoliberale a velocità turbo rispetto ad una rappresentanza politica pari a zero. Questa “sistemazione”, che va bene solo per lo 0.1% della popolazione, non può semplicemente continuare ad essere come prima.
Effettivamente ciò di cui ho scritto su Hong Kong sette anni fa [in inglese] per Asia Times, avrei potuto scriverlo questa mattina. E la situazione è peggiorata. Più del 15% della popolazione di Hong Kong ora vive in uno stato di reale povertà. Secondo i dati dello scorso anno, il valore netto totale dei 21 tycoon più ricchi di Hong Kong [in inglese], pari a 234 miliardi di dollari, equivaleva alle riserve fiscali di Hong Kong. La maggior parte di questi tycoon sono speculatori del mercato immobiliare. Mettete tutto questo a confronto con i salari dei lavoratori a basso reddito che sono aumentati di un misero 12,3% nell’arco degli ultimi dieci anni.
Pechino, più dopo che prima, si potrebbe essere svegliata riguardo il tema numero uno di Hong Kong, cioè la follia del mercato immobiliare, come riportato da Asia Times. Tuttavia, anche se i miliardari capiscono il messaggio, la struttura che sta dietro la vita di Hong Kong non è destinata ad essere alterata: il massimo profitto che schiaccia i salari e ogni tipo di sindacalizzazione.
La disuguaglianza economica continuerà quindi a crescere, perché un governo non rappresentativo di Hong Kong “guidato” da incapaci funzionari pubblici continua a trattare i cittadini come non-cittadini. All’Università di Hong Kong ho sentito alcune proposte serie: “Abbiamo bisogno di un salario minimo più realistico. Abbiamo bisogno di vere tasse sulla plusvalenza e sulla proprietà. Abbiamo bisogno di un mercato immobiliare corretto”.
Il tema sarà affrontato prima di una scadenza cruciale – il 1 ottobre – quando Pechino celebrerà in pompa magna il 70° anniversario della Repubblica Popolare Cinese? Sicuramente no. I problemi continueranno a fermentare alla Dragon Inn, mentre quei sottopagati e sovrasfruttati addetti alla pulizia affronteranno il più cupo dei futuri.
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Articolo di Pepe Escobar pubblicato su The Saker il 16 settembre 2019
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per Saker Italia.
[I commenti in questo formato sono del traduttore]
Articolo davvero interessante e illuminante!
Grazie ancora a tutti voi per l’ottimo lavoro. Questa sì che è informazione.