Nel messaggio economico mainstream (quello dei giornali e delle televisioni facenti capo ai grandi gruppi editoriali, per intenderci) sentiamo parlare continuamente di “crisi” e “ripresa”. Al singolare. Come se questi fenomeni macroeconomici fossero equivalenti per ogni singola persona coinvolta.  Ma questa rappresentazione è una immagine fedele ed esauriente della realtà? Espansioni e contrazioni sono veramente “democratiche” e “uguali per tutti”?

Per provare a scoprirlo concentriamoci sul paese chiave, gli Stati Uniti, e su di un parametro, l’evoluzione della  ricchezza delle famiglie divise per classi sociali (dal 10% più povero al 10% più ricco in termini di patrimonio al netto dei debiti) successiva alla grande crisi del 2007/2008:

Patrimonio delle famiglie USA, per classi di reddito.

Come si può osservare esaminando il grafico (per la verità piuttosto banale) fino alla metà degli anni 70 è il 50% più povero della popolazione a migliorare la propria condizione economica in modo più sostanzioso. E’ il trentennio del welfare (persino negli States) e di una crescita ad alto tasso di lavoro, ben distribuita e con un elevato livello di tassazione. Non è il paradiso, ma è lo stesso trend che ha consentito ai nostri nonni di passare da contadini a operai con una casa di proprietà, qualche soldo di risparmio, e con la possibilità di fare studiare i figli.

Poi (continuiamo a seguire i tracciati del grafico) arriva la crisi petrolifera degli anni ’70  da cui si esce, verso la fine del decennio, con l’ applicazione delle ricette politico economiche liberali (una stagione legata ai nomi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, ma anche all’implementazione della “costruzione europea”), che rimette progressivamente ma inesorabilmente in dubbio tutto il modello sociale del trentennio precedente. Il risultato? Lo vediamo sempre sul grafico. La retta blu (che indica il 50% più povero della popolazione) comincia a cedere il passo prima a quella nera (il 40% di mezzo) e poi alla grigia chiara (rappresentante il 10% superiore).

Naturalmente fino alla fine degli anni ’90 si sale tutti, e quindi la maggior parte delle persone non si accorge di quanto sta perdendo in termini relativi e del fatto che quella stessa crescita è ben diversa da quella del trentennio precedente: questa distrazione verrà pagata in seguito ed il conto sarà salato. Infatti (avvicinandoci ai giorni nostri) che succede nel 2008? La crisi è violenta dal punto di vista finanziario ma a pagarne le spese in modo più brutale è proprio il 50% più povero, la cui perdita non si limita alle azioni di borsa (che spesso non hanno, se non nei fondi pensione) ma investe le certezze faticosamente conquistate nei decenni precedenti: il lavoro, la casa, i servizi sociali.

Il 10% superiore, pesantemente coinvolto nel crollo finanziario, si riprende in fretta grazie ai salvataggi pubblici e a un modello economico disposto a tutto (dal quantitative easing alla globalizzazione più selvaggia) pur di tutelare il grande capitale. Per loro la crisi finisce in fretta e il loro accumulo di ricchezza prosegue senza sosta, oltrepassando in pochissimo tempo le vette del 2007/2008.

Nonostante questo 10% sia composto proprio dalla elite prima responsabile della crisi e nonostante la posizione economica dei suoi membri li esponga più di tutti, sulla carta, alle sue ripercussioni, non solo ne soffere meno gli effetti, ma si giova anche di un più veloce recupero: ai piani alti la crisi finisce in un batter di ciglia e si torna quasi subito ad accumulare ricchezza. Il 40% mediano, invece, la sente molto di più, tanto è vero che, ancora oggi, il loro livello di ricchezza è inferiore al picco. Per loro la crisi c’è, incide in maniera anche abbastanza pesante, e la ripresa seguente è parziale e stentata.

Ma è sul 50% più povero che si abbatte un vero e proprio tsunami. La violenza della crisi li porta in pochissimo tempo a perdere quanto guadagnato dal 1950 (60 anni di sviluppo) e la tiepida ripresa gli   consente di recuperare, al massimo, un livello di ricchezza simile a quello che avevano negli anni ’60 (ma con ben altre prospettive).

Il risultato è una differenziazione sociale aberrante, simile più a società del primo, brutale, capitalismo che non a quella del mondo in cui i nostri genitori e noi stessi, durante l’ infanzia, siamo stati abituati a vivere, moderata solamente dal livello di sviluppo tecnologico e dal sostegno delle pregresse generazioni.

Guardando i patrimoni divisi per decile il fenomeno è ancora più lampante:

Il 10% più povero dei cittadini statunitense ha addirittura un patrimonio negativo. Sono persone che non possiedono nulla, anzi hanno addirittura più debiti che ricchezza. Le persone che compongono la fascia  bassa immediatamente superiore, fino al 25%, hanno un patrimonio di 1o.000 $  e spingendoci al 50% ci avviciniamo ai 100.000 $ di patrimonio. Teniamo conto che sono cifre relative agli USA, un paese con costo della vita mediamente più alto del nostro e con servizi primari come l’Università (che può costare in media sui 30.ooo $ annui, e non parliamo di IVY league, ma di normali università private) o l’assicurazione sanitaria (se non si vuole morire per problemi anche banali) completamente privatizzati e quindi a carico degli utenti.

Arriviamo in vetta alla piramide: il 10% superiore vanta una “dignitosa” (per usare un eufemismo) ricchezza di 1 milione di $, ma per l’ 1%  più ricco il divario diventa semplicemente vergognoso: il patrimonio medio sale a circa 10 milioni di $ per questa elite. E se si andasse ad analizzare lo 0,1 e lo 0,01 vedreste una progressione ben più che lineare.

Oligarchia, plutocrazia o cleptocrazia sarebbero nomi ben più adeguati di democrazia, per descrivere un sistema del genere. In questo contesto, sentire parlare di “pericoli per la democrazia” strappa un sorriso amaro. Per quanto, talvolta, le agende politiche di forze “populiste” siano detestabili, o perlomeno discutibili (e spesso non in reale contrapposizione con le politiche liberali dei decenni passati), le reazioni  di chi si dispera strillando che la “democrazia è sotto attacco” risultano essere ingiustificate per un banale motivo: la democrazia è già morta, e spesso il decesso del caro estinto è avvenuto tra gli applausi di quegli aedi che ancora oggi continuano a considerare questo modello post anni ’70 come senza alternative possibili. Un modello che, invece, fatalmente ci porterà dove segnalato da quest’ ultimo grafico:

Ipotesi “bolla definitiva”

Le strisce grigie verticali evidenziate sono recessioni (sempre più pesanti, mano a mano che le politiche liberali pervadono le società). Come si può vedere lo sviluppo economico statunitense si snoda scandito, decennio dopo decennio, da “crisi” sempre più violente, e si spinge ora versa una possibile “bolla definitiva”. Le valutazioni le lascio ad ognuno, anche perché il grafico spiega già da solo bene le possibili implicazioni. Difficile, in queste condizioni, immaginare che il peggio possa essere realisticamente scongiurato. L’ unico auspicio possibile è che almeno il prossimo, ennesimo crollo violento, provocato da un modello che si è dimostrato tanto dannoso, sia l’occasione per cambiare una buona volta l’ indirizzo politico economico delle nostre società. Altrimenti sarà solo una inutile carneficina sociale, simile  a quelle a cui abbiamo assistito nel recente passato, ma ancora più grave nei suoi effetti.

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Articolo del 18 ottobre 2018 di Amos Pozzi per Saker Italia

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