Nel dibattito economico di questi ultimi anni l’attenzione si è concentrata, da un lato, sull’entità del debito pubblico (il famoso “fardello sulle spalle delle future generazioni”), dall’altro sulla questione Euro Si – Euro NO (con tutti i suoi corollari riguardanti “le regole” e “l’austerità). Questa focalizzazione non è stata casuale.

Battere il tasto del “debito insostenibile” (vedasi pregiudizi assortiti sugli “italiani spendaccioni e pigri”) infatti (ne abbiamo parlato qui e qui) serve a giustificare politiche di austerità che producono disagio sociale, decrescita del prodotto interno lordo e privatizzazioni a valanga (con vantaggio dei soliti “santi investitori” spesso “internazionali”).

Oggi ci focalizzeremo, invece, sull’altro tema “caldo”, quello sulla moneta unica. Siamo chiari: l’Euro è indubbiamente un problema reale per la nostra economia. Sia l’aggancio monetario che le rigidità nella gestione della finanza pubblica su cui è costruita l’Unione Europea hanno provocato costi enormi per il nostro paese (ed in generale per i paesi del sud Europa) in termini di equità sociale, servizi e crescita economica mancata.

La necessità di compressione della domanda interna per tenere in attivo la bilancia commerciale in assenza degli ammortizzatori forniti naturalmente dalla leva valutaria ha aggravato di molto le conseguenze della crisi del 2008 nel nostro paese e questo svantaggio per l’Italia è stato vantaggio per qualcun altro (i nostri “fraterni concorrenti” manifatturieri).

Italia: saldo delle partite correnti “stiamo distruggendo la domanda interna tramite il consolidamento fiscale” (cit.)

L’Euro, quindi, è un pezzo del problema. Non è, però, l’intero problema, specialmente se ci si pone come obiettivo un modello economico che garantisca e tuteli i lavoratori. In questa prospettiva, infatti, esiste un’ altra importante variabile: i salari. Come sono andati i salari i reali negli ultimi decenni? Come sono andati in rapporto ai profitti? Hanno qualche correlazione con le politiche che abbiamo enunciato sopra?

Italia: quota salari

Questo grafico rappresenta la quota di ricchezza nazionale rappresentata dai salari dei lavoratori. Cosa ci dice? Osserviamo che la quota salari  raggiunge un picco negli anni ’70, e poi inizia un costante declino. Tale diminuzione prosegue ininterrottamente fino al 2000, anno in cui ricomincia a crescere (una crescita solo apparente, derivata del rallentamento e poi dalla crisi dei profitti, non certo da una crescita della qualità della vita reale e del potere di acquisto della classe lavoratrice come quella cui si è assistito dagli anni ’50 a metà anni ’70).
Non sembrerebbe esserci quindi correlazione diretta tra introduzione dell’euro (nel 1999/2002) e discesa della quota salari. Per completezza dobbiamo tuttavia ricordare che politiche come il divorzio tra banca d’Italia e Tesoro, le privatizzazioni degli anni ’90 e l’abolizione della “scala mobile” (Craxi 1984, Amato 1992), che indubbiamente hanno avuto un peso sociale notevole, venivano realizzate tenendo presente la prospettiva del mercato e della moneta comune, abbattendo inflazione e debito pubblico in modo tale da potersi presentare come “partner affidabili” all’estero. Otteniamo così l’impressione di una compressione salariale dovuta in parti grosso modo uguali alle esigenze di convergenza imposte dalla volontà di integrazione monetaria e ad altri fattori indipendenti, che cercheremo nel seguito di individuare.

Proseguiamo la nostra analisi esaminando l’andamento dei salari e l’inflazione, un esame che ci conferma nella valutazione di “responsabilità” per così dire  al 50 e 50 (all’Euro e alle altre altre cause che vogliamo individuare). Il crollo brutale dell’aumento dei salari reali avviene sempre nel medesimo punto a metà degli anni ’70 (questo non può essere ascritto alla moneta unica). Ma fino al 1998 si riesce a mantenere un incremento positivo, nonostante tutto, rispetto all’inflazione. Il temporale si avvicina, ma la crescita economica e la parziale libertà monetaria di cui godiamo fino al 1998 non ci fanno avvertire la catastrofe imminente. Anzi, sono gli anni dell’europeismo dilagante e condiviso, in cui la convinzione diffusa è quella che l’Unione Europea ci costringerà a “diventare virtuosi” abbandonando i nostri “vizi atavici”. Sono gli anni della “terza via”, del capitalismo come unico orizzonte possibile anche per i partiti di sinistra (almeno per la sinistra mainstream che si rende incautamente complice della doppia adesione acritica al libero mercato ed al dogma Unione Europea / Euro.

Evoluzione della quota salari in alcuni paesi campione

Concludiamo quindi con un grafico che ci riporta cosa è successo nei principali altri dell’area euro atlantica: Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia. Di questi paesi due, considerati “forti”, fanno parte dell’area euro e due sono invece esterni alla stessa (parzialmente la Gran Bretagna che esce da Sme nel 1992 per non rientrarci mai più): ebbene, in tutti i casi osservati la quota salari ha la stessa ripida caduta. Ed il minimo comune denominatore di queste esperienze, non potendo ovviamente essere l’Euro o l’Unione Europea sono le politiche neoliberiste, attuate in tutto il mondo da metà anni ’70 (con la crisi petrolifera) fino ad oggi. Di queste politiche, quindi, l’Unione Europea è solamente mezzo (fondamentale) ma non causa.
In conclusione possiamo dire che mettere al centro la dimensione dialettica capitale/lavoro nella critica all’Euro e all’Unione Europea  sia fondamentale, un momento di critica imprescindibile se vogliamo invertire la rotta. Non si può eludere il problema UE/Euro (come ha fatto spesso la sinistra radicale in nome di un  superamento della dimensione nazionale vissuto come “progressista”) o peggio ancora sostenere in maniera acritica il processo di integrazione (responsabilità indelebile di tutte le ex sinistre divenute liberali).

Stabilito questo, però, bisogna aggiungere che non si può nemmeno centrare la propria opposizione all’Unione Europea solamente su moneta e austerità (come preteso dalle aree politiche che sostengono la posizione del governo) senza impostare come problema primario quello dei diritti dei lavoratori, della giustizia sociale, e conseguentemente della lotta al neoliberismo (se non alle dinamiche intrinseche del capitalismo stesso).

Diventa quindi fondamentale una critica al modello globale di sviluppo post anni ’70, modello di cui il lavoratore tedesco “Hartz”  o quello americano con sanità privata sono vittime tanto quanto quello italiano (sulle cui spalle è aggiunta la dimensione di essere lavoratore in una provincia dell’impero).

In un momento in cui il dibattito sembra polarizzarsi fra i fautori del cosmopolitismo globale (“no border”, “antifa” etc.) e sostenitori di un nuovo sciovinismo nazionalista è utile ricordare, partendo da qualche dato, che è invece necessario recuperare sovranità nazionale senza perdere di vista il contesto internazionale, ed in particolare lo sviluppo parallelo, in tutti i paesi occidentali, di distorsioni prodotte dal “pensiero unico”, tali da aggravare ogni giorno di più le disuguaglianze e la distruzione del tessuto sociale.

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Articolo di Amos Pozzi per Sakeritalia del 15 novembre 2018

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