Il 21 luglio sono cominciate le esercitazioni congiunte delle forze aeree e della marina militare cinese nel Mar Cinese Meridionale. Le precedenti esercitazioni risalivano al periodo dal 5 all’11 luglio. In altre parole, le attuali esercitazioni costituiscono un dispiegamento in modalità quasi permanente delle forze cinesi nella zona contesa e strategicamente importante dell’arcipelago delle Spratly. Il 18 luglio l’aviazione strategica della Cina ha cominciato a pattugliarne i confini, comprese le isole contese. Nonostante la specificità dell’aviazione strategica cinese (il bombardiere H-6 è una copia fabbricata su licenza del sovietico Tu-16 prodotto nel 1953-1963), si tratta di un gesto molto significativo. L’aviazione strategica prevede soprattutto un equipaggiamento con armi nucleari.
In altre parole, la crisi intorno alle isole contese continua a intensificarsi, e i “gesti” dimostrativi delle parti coinvolte stanno diventando sempre più radicali. L’inasprimento attuale della crisi è in un certo senso “pianificato”, e più che previsto. La Cina da tempo accampa pretese su quasi tutta l’area di vitale importanza del Mar Cinese Meridionale: pretese in realtà delineate già dalla cosiddetta «linea a U», apparsa nel 1947 sulle mappe del governo di Chiang Kai-shek, incontrando l’opposizione dei paesi vicini, del Giappone e degli Stati Uniti. Nel 2013 gli oppositori, su probabile incitamento di Washington, hanno deciso di passare all’azione, e le Filippine hanno intentato una causa al Tribunale arbitrale dell’Aia per invalidare le pretese di Pechino sulla zona economica esclusiva all’interno della linea a U. La Cina ha categoricamente respinto la richiesta e ha rifiutato di cooperare con il tribunale, non riconoscendone la giurisdizione. Contemporaneamente ha cominciato a fare pressioni sulle Filippine su tutti i fronti.
La tensione aumentava all’avvicinarsi del verdetto, così la reazione dell’agenzia di stampa “Xinhua” alle esercitazioni congiunte di aprile di Filippine e Stati Uniti è stata estremamente dura. “Questa provocazione è estremamente intempestiva e inquietante, perché potrebbe avere un’influenza negativa su chi l’ha promossa. Un grande paese con interessi vitali in Asia, come gli Stati Uniti, dovrebbe definire chiaramente gli obiettivi della sua politica estera nella regione asiatica: per il momento le azioni degli Stati Uniti non sono altro che una combinazione di discorsi pacifici e comportamenti aggressivi”.
Il 14 maggio, alla vigilia della visita del Segretario di Stato John Kerry a Pechino, The Wall Street Journal ha pubblicato una “fuga di notizie” dal Pentagono. “Il Segretario della Difesa Ashton Carter ha chiesto ai suoi assistenti di compiere un’analisi delle opzioni disponibili, inclusi voli sulle isole da parte di aerei degli Stati Uniti, monitoraggio e invio di navi da guerra americane nella «zona del reef» di 12 miglia, nota come Isole Spratly, creata e rivendicata dalla Cina come suo territorio”. Durante la visita, il Segretario di Stato americano “ha espresso preoccupazione” riguardo i ritmi di espansione delle infrastrutture cinesi su queste isole. In risposta, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha dichiarato che “la determinazione della Cina per salvaguardare la sua sovranità e integrità territoriale è ferma e incrollabile come una roccia”.
Il 5 giugno Kerry ha definito la creazione della zona di difesa aerea cinese sulle isole “un atto provocatorio e destabilizzante”. Il vice Capo di Stato Maggiore generale della Cina Sun Jianguo ha risposto: “Noi non creiamo problemi, ma non abbiamo paura di loro. La Cina non permetterà alcun attentato alla propria sovranità e sicurezza, e non rimarrà indifferente ai tentativi di alcuni paesi di creare il caos nel Mar Cinese Meridionale”. Il 7 giugno si trovavano nel Mar Cinese Meridionale sei delle dieci portaerei degli Stati Uniti, e una di loro, la “Stennis”, vi si trovava da marzo. Un aereo cinese ha effettuato una “manovra non sicura” durante l’intercettazione di un aereo spia americano. Il giornale del Partito comunista cinese in lingua inglese Global Times ha scritto: «La maggioranza dei cinesi sperano che la prossima volta il pilota cinese abbatta l’aereo spia”.
Il 19 giugno le portaerei “Stennis” e “Ronald Reagan” iniziano le esercitazioni nel Mar delle Filippine, e il 22 giugno il Quotidiano del Popolo scrive: “La Cina non è un paese con cui sia possibile giocare a questi giochi”. In parallelo, Newsweek pubblica un articolo circa l’inevitabilità del conflitto militare tra Cina e Stati Uniti.
Il 5 luglio, come già detto, sono cominciate le esercitazioni su larga scala delle forze armate cinesi nel Mar Cinese Meridionale, con vasto risalto sulla stampa. Il Global Times scrive: «Nonostante la Cina non possa competere militarmente con gli Stati Uniti nel breve termine, Washington pagherà un prezzo elevato in caso di intervento militare nel conflitto nel Mar Cinese Meridionale. La Cina è un paese pacifico (…) ma deve essere pronta a qualsiasi confronto militare”.
Il 12 luglio, il giorno dopo il termine delle esercitazioni, si è pronunciato il Tribunale dell’Aia, che non ha trovato motivi per le rivendicazioni della Cina sulla zona economica esclusiva delle Spratly. La sua decisione non è stata riconosciuta dalla Cina e da Taiwan, che hanno inviato una nave da guerra nelle isole contese.
Per un certo tempo per Pechino si è profilata la prospettiva di un accordo separato con Manila. Il nuovo presidente delle Fillippine Rodrigo Duterte, che ha assunto la carica il 30 giugno, anche durante la campagna elettorale dichiarava la sua disponibilità a scambiare il ritiro della causa con un impegno cinese a ricostruire la rete ferroviaria filippina nei prossimi sei anni. Questo però ha causato preoccupazione in Giappone e negli USA, e in meno di tre settimane la posizione del nuovo governo ha subìto degli aggiustamenti: così, il 19 luglio i filippini rifiutavano ufficialmente di negoziare con la Cina.
In generale, finora il conflitto si trova su un piano retorico e “dimostrativo”. Ma dietro di esso si celano contrasti molto più vasti. La Cina si trova ora in una situazione molto simile a quella della Germania alla vigilia della prima guerra mondiale. L’economia cinese è orientata verso le esportazioni e dipendente dalle importazioni di materie prime, e quindi dalle linee di collegamento marittime (ad esempio, il petrolio importato costituisce il 60% del consumo, il rame il 69%, i minerali ferrosi l’80%), linee che potrebbero subire un blocco navale in qualsiasi momento. Al largo di tutta la costa della Cina si estende una catena di isole e penisole controllabili da un potenziale nemico, che potrebbe essere la Corea del Sud, il Giappone con le isole Ryukyu, Taiwan, in un certo senso le Filippine. A sud, uno stretto di importanza critica è controllato dalla pro-occidentale Singapore, e l’arcipelago delle Spratly si trova proprio a metà strada. Tuttavia, il problema dello stretto di Malacca non è così critico come sembri: nonostante alcuni incidenti, l’Indonesia sta attivamente sviluppando legami economici e militari con Pechino e con Mosca. Più oltre nell’oceano Pacifico, si trovano varie isole controllate dagli Stati Uniti: le Marshall, le Marianne, le Caroline, e la più grande base militare degli Stati Uniti, a Guam. La rete di basi militari è aumentata sia quantitativamente – una di loro è in fase di costruzione sull’isola sud-coreana di Jeju-do – che qualitativamente (sta venendo ampliata, ad esempio, la già enorme base di Guam).
La creazione di un “filo di perle” – una catena di capisaldi, dalla costa sud della Cina fino al Golfo Persico e oltre (le Spratly sono solo una di queste “perle”) – dovrebbe in parte risolvere il problema per la Cina. Il secondo elemento della “strategia di sfondamento” cinese è stata la creazione di percorsi oceanici alternativi – attraverso la Birmania e il Pakistan, lungo le cui coste si trovano altri capisaldi facenti parte del “filo di perle”. A partire dal 1978, in Birmania sono stati modernizzati e militarizzati sette siti costieri, tra cui Sittwe, Kyauriu e Mergui, oltre a una base nelle Isole Coco; secondo gli osservatori occidentali, questi siti potranno essere concessi in affitto alla Cina. Inoltre, è stata modernizzata la base aerea di Meyktila nella Birmania centrale, a sud di Mandalay. Infine, l’influenza cinese è stata consolidata anche demograficamente: entro il 2005 erano immigrati nel paese circa un milione di cinesi, trasformando tutto il nord in una gigantesca Chinatown. Nel 2004 è stato siglato un accordo per la costruzione di un gasdotto transbirmano verso la Cina, e nel 2007 di un oleodotto.
Punto di riferimento fondamentale per la Cina sulla costa pakistana è divenuto il porto di Gwadar, proprio alle porte del Golfo Persico. Il terzo e più difficile elemento è il tentativo di “sfondare” pacificamente il principale “muro” anticinese, ossia la reintegrazione di Taiwan. Durante il ritorno al governo del “Kuomintang” (partito nazionalista taiwanese, NdT), nel periodo 2008-2016, Pechino ha fatto passi decisivi in questa direzione, rafforzando in modo significativo le relazioni economiche dell’isola ribelle con la Cina continentale. Tuttavia, l’espansione cinese negli anni 10 sta cominciando a dover affrontare alcuni problemi. Il regime militare birmano, di fronte alla minaccia della perdita dell’indipendenza, dal 2011 si va riavvicinando gradualmente all’Occidente. Le prime elezioni parlamentari, tenutesi nel novembre 2015, sono state vinte dalla Lega nazionale per la democrazia (NLD), guidata dall’ex dissidente Aung San Suu Kyi, e nel marzo di quest’anno è diventato presidente un rappresentante dello stesso partito, Htin Kyaw. Pechino è abbastanza fredda per il successo della NLD, considerata un contrappeso ai militari “ribelli”, ed è evidente che questa situazione complicherà la piena integrazione del paese nella “Grande Cina”.
Allo stesso tempo, a Taiwan è salito al potere un partito “separatista” – il Partito democratico del progresso (DPP). Il 20 maggio, Tsai Ing-wen ha assunto la carica di presidente, e nel discorso di insediamento ha sorvolato sulla questione del riconoscimento dei principi del “Consenso 92”, che regolano i rapporti di Taiwan con il continente. In risposta, Pechino ha chiuso la sua ambasciata non ufficiale sull’isola. Non si tratta di una fluttuazione politica locale, ma di una tendenza a lungo termine. La popolazione cinese di Taiwan è divisa in due sottogruppi etnici – la popolazione indigena di Taiwan (84%), e l’ultima ondata (14%) di quelli che vi si sono trasferiti dopo la sconfitta del Kuomintang nella Cina continentale. Le differenze linguistiche, mentali e di vita quotidiana tra di loro sono considerevoli, e per lungo tempo sull’isola hanno dominato gli ultimi arrivati dal continente. Così, la lingua ufficiale di Taiwan è il mandarino dei forestieri, e non la locale lingua Amoy. Si consideri che i gruppi dialettali cinesi sono in realtà delle lingue indipendenti, e che la distanza tra di loro è molto maggiore che tra il russo e l’ucraino; per fare un esempio, sono come il russo e il lituano. Le proteste della popolazione locale furono soppresse spietatamente. Dopo l’«Incidente 228» (una sollevazione anti-governativa che ebbe inizio a Taiwan il 28 febbraio 1947, violentemente repressa dal governo del Kuomintang, NdT), che costò dalle 10 alle 30 mila vittime, sull’isola è rimasto in vigore per quarant’anni lo stato di emergenza. Nel frattempo è stata posta in atto una strisciante «taiwanizzazione» di Taiwan, che ha subìto un’accelerazione dopo il 2004, quando al governo è arrivato il DPP. Se nel 1992 solo il 17,6% della popolazione si identificava come appartenente a Taiwan, all’inizio del 2016 lo era già il 60.6%, mentre si considerano cinesi veri e propri solo il 3,5% degli abitanti.
Tutto questo rafforza il ruolo del “filo di perle”, di cui fanno parte le Spratly, e aumenta drasticamente la probabilità che la Cina debba rompere con la forza il “muro” di isole al largo delle sue coste. Per questo è necessaria una flotta, che è appunto in fase di rapida costruzione, il che causa una grave preoccupazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Se nel 2010 il tonnellaggio totale della Marina cinese era inferiore di una volta e mezzo a quello della Marina russa (pari a 779 mila tonnellate), ora ha però raggiunto le 775 mila tonnellate, e per quanto riguarda le forze di uso generale (esclusi i sottomarini strategici), la Cina ha già superato la Federazione Russa (712 mila tonnellate contro 633 mila). In futuro la crescita continuerà, e molto velocemente: l’età media delle navi cinesi è di 12.6 anni, e le navi entrate in servizio negli ultimi dieci anni costituiscono il 39,5% del totale (negli gli Stati Uniti, il 21,4%).
Per il momento si tratta di una flotta regionale, perché i cinesi avevano difficoltà con la costruzione di grandi navi con un dislocamento di oltre 7 mila tonnellate, delle portaerei e dei sottomarini nucleari. Ma sembra che queste difficoltà siano state superate. A quanto pare, proprio nel prossimo futuro, la Cina otterrà una flotta d’altura a tutti gli effetti, diventando così automaticamente una minaccia mortale per l’intera sfera di influenza degli Stati Uniti in Asia orientale: Taiwan, Corea del Sud e Giappone dipendono dai trasporti via mare molto più che l’Inghilterra nel 1913. In effetti, abbiamo una riproduzione della situazione alla vigilia della prima guerra mondiale, in cui la flotta tedesca, in grado di distruggere i blocchi navali e garantire i collegamenti, si trasformò automaticamente in una minaccia mortale per gli inglesi. Le conseguenze del cosiddetto Piano Tirpitz* si manifestarono nel 1914. Intanto, la posizione degli Stati Uniti, per quanto riguarda i suoi satelliti in Asia orientale, ripete la situazione dell’Inghilterra ai tempi della prima guerra mondiale, in quanto la trasformazione della Corea del Sud, di Taiwan e del Giappone in satelliti della Cina è una minaccia esistenziale per gli interessi degli USA.
Stiamo assistendo in questa area geografica a qualcosa di molto simile alla corsa agli armamenti che coinvolse la Germania e l’Inghilterra alla vigilia della prima guerra mondiale: ad esempio, la flotta giapponese sta crescendo a ritmi paragonabili a quelli cinesi. Parallelamente, il fulcro dell’attenzione della Marina americana si sta spostando verso il Pacifico, così come tutta la macchina militare americana nel suo complesso, e proprio per questo l’amministrazione Obama cerca di ridurre la presenza delle forze americane in Medio Oriente.
Insomma, si ripete la situazione geopolitica del XX secolo in tutti i settori. Il conflitto armato su larga scala tra i due blocchi globali che vanno prendendo forma, guidati da Cina e Stati Uniti, sembra essere inevitabile.
* – Alfred von Tirpitz (1849 -1930) – ammiraglio tedesco e segretario di stato per il Ministero della Marina imperiale. Tirpitz sviluppò una teoria del rischio secondo la quale, se la flotta tedesca avesse raggiunto un certo livello di forza nel confronto con quella britannica, gli inglesi avrebbero cercato di evitare il confronto con l’Impero tedesco. (Wikipedia)
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Articolo di Evgenij Pozhidaev pubblicato da EADaily il 22 Luglio 2016
Traduzione dal Russo a cura di Elena per SakerItalia.it
ma certo, è solo questione di tempo. Gli Usa hanno sempre cercato la guerra non appena intravedevano un calo dei loro affari. E’ il loro “modus operandi”. Solo che questa volta il risultato non è scontato. Una guerra con la Cina potrebbe significare la fine degli Usa. Credo che se così fosse, il mondo conoscerebbe un periodo di pace e prosperità.