La storia potrebbe arrivare ad una fine imbarazzante nei centri dell’Impero, ma non nelle sue regioni più remote. Come sottolinea il grande analista egiziano Samir Amin in un saggio su Monthly Review: è nella periferia del sistema globale che si verificano le grandi tempeste politiche e sociali.

Perché? Perché lì la storia è ancora fluida. La battaglia contro e a favore della trasformazione del sistema va ancora avanti. Mentre i centri stagnanti del sistema stanno affrontando le patetiche conseguenze della modernità – ai confini: la modernità sta ancora nascendo e viene ancora strangolata.

In altre parole, gli anelli più deboli della catena globale del capitalismo mostrano meglio quello che sta succedendo, e cosa succederà dopo. Pertanto, se volete valutare il sistema, dimenticatevi di New York, di Londra o di Parigi, e andate in luoghi come le Filippine.

Prima che Rodrigo Duterte fosse eletto presidente delle Filippine l’anno scorso, a nessuno importava nulla del paese. Si supponeva solo che fosse un burattino americano, un altro paese pieno di povertà, ma dalla notte al giorno questa percezione è cambiata. Un’importante tempesta politica è emersa dall’arcipelago filippino, e ha costretto il mondo a correggere la sua visione.

A pochi giorni dall’elezione di Duterte l’Impero venne costretto a ritirarsi, perché egli insisteva sulla sovranità filippina. Ironia della sorte, lo fece riconoscendo la posizione della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Rifiutandosi di abboccare all’esca americana (la guerra contro la Cina), il nuovo presidente delle Filippine ha rapidamente disinnescato uno degli scontri più pericolosi del mondo.

Solo per questo atto di diplomazia, Duterte meritava il Premio Nobel per la Pace. Tuttavia l’Impero e persino alcuni progressisti filippini, come Walden Bello, sono rimasti frustrati da questa pace  improvvisa nel Mar Cinese Meridionale.

Per aver commesso “il crimine della pace” sul palcoscenico internazionale, Duterte è diventato una figura odiata da tutti gli imperialisti liberali. E come conseguenza, i liberali si sono improvvisamente preoccupati della vita nelle Filippine. Dall’essere oggetto di ignoranza prima dell’avvento di Duterte – la vita dei filippini è diventata protagonista delle prime pagine a New York, Londra e Parigi. Il cinismo liberale ha sentito la necessità, per ragioni geopolitiche, di demonizzare un altro leader del Terzo Mondo.

“Prima di Duterte” decine di migliaia o addirittura milioni di vite filippine venivano perdute ogni anno a causa della povertà, senza che i liberali dicessero una parola di protesta. Ora, “durante Duterte” ogni vita persa nelle Filippine, o così sembra – secondo i media occidentali – è colpa di Duterte.

L’elezione di Duterte ha spazzato via in un colpo cento anni di politica in stile americano nelle Filippine. Sia l’opinione generale pro-business ultra-liberale che domina oggi Manila, che la dittatura ossessionata dall’anticomunismo che dominava Manila ieri, sono state eliminate (per il momento, comunque) dalla politica di una città provinciale: Davao – la città natale di Duterte. Un posto dove ha governato per decenni.

Davao – un umile agglomerato urbano di terza categoria sulla grande isola di Mindanao – ha trasformato dalla notte al giorno la politica non solo delle Filippine ma anche dell’Asia. Una città ordinaria con gente comune ha rotto gli schemi.

Quindi cosa ha di così speciale Davao? Rispetto a Manila non ci sono grattacieli a Davao. La vita viene vissuta a livello terra-terra, e questa è la chiave. Non esiste un’architettura delle bolle che genera un’oligarchia metafisica. È un porto tropicale che crea un modo di vivere che lascia indietro la maggior parte della sua popolazione. Non esiste una via di fuga facile dalla realtà sociale.

Il livello terra-terra non si riferisce solo al paesaggio ma anche alla linea storica. Davao, che le piaccia o meno, ha il volto nella sporcizia della storia. È lontana dal potere. Tuttavia il suo naso è schiacciato contro il tempo reale filippino. La distanza dalla metropoli di Manila la rende realistica.

Negli anni ‘80 i comunisti combattevano per le strade di Davao. I capitalisti hanno vinto, e ora i comunisti (il Nuovo Esercito Popolare) sono sulle montagne e le guardie private proteggono ogni attività della città.

E proprio lungo la strada sul lato occidentale di Mindanao, il Fronte di Liberazione Islamico Moro sta avendo un ruolo importante nella creazione di una regione autonoma musulmana. E in quella regione un esercito imperiale per procura (l’ISIS) ha appena conquistato la città di Marawi.

Il comunismo, il capitalismo, il Cattolicesimo, l’imperialismo e l’Islam si incrociano a Davao e nell’entroterra. Si sovrappongono “nazionalismi” diversi (filippino, Musulmano e Protestante – i Cristiani rinati si comportano come una nuova “nazione”). E a controllare tutto questo vulcano ideologico c’è una legge marziale recentemente dichiarata (solo a Mindanao).

Il primo motore delle azioni in questo punto caldo politico è il saccheggio. Il capitalismo periferico ha a che fare esclusivamente con lo stupro delle risorse reali a beneficio dei centri globali. Ed è la resistenza contro e il mantenimento di questo stato di cose che genera le suddette ideologie in un modo o nell’altro.

Piantagioni e baraccopoli affiancano la strada sconnessa tra Davao e General Santos (la città più meridionale delle Filippine). Le banane, gli ananas, la gomma e la canna da zucchero sono la priorità. Alla gente va la biada. Anche il mare deve dare la sua libbra di carne: il tonno pinna gialla.

Infatti, le condizioni generali di vita e l’economia di Davao e Mindanao assomigliano, ad esempio, a quelle del Chiapas nel Messico meridionale. Le aziende minerarie e le imprese agricole conquistano i terreni e gli indigeni si disperdono lungo la strada.

Si pensa che nel 2015 il 12% di Mindanao (500.000 ettari) fosse coperto dalle piantagioni “per l’esportazione”.

Secondo Wikileaks, l’ambasciata statunitense a Manila, qualche anno fa, “ha descritto in particolare Mindanao come “un tesoro inestimabile” di risorse minerarie, tra cui oro, rame, nichel, manganese, cromite, argento, piombo, zinco e ferro. Secondo i dati del Dipartimento Miniere e Geoscienze della GRP, fino al 70% delle risorse minerarie delle Filippine potrebbero trovarsi a Mindanao”.

Duterte, ovviamente, non è il Subcomandante Marcos (portavoce degli zapatisti – i ribelli del Chiapas), ma rappresenta una sfida politica alle forze liberali che sfruttano in modo malvagio Mindanao e le Filippine.

Dà voce alle strade e alle baraccopoli di Davao e Mindanao, nello stesso modo in cui il Subcomandante Marcos dà voce alle giungle del Chiapas. Il non convenzionale Duterte deve essere preso sul serio – proprio come deve essere preso sul serio il messicano non convenzionale col passamontagna.

E – considerando l’altro estremo non convenzionale – Duterte non è Donald Trump, non c’è alcun paragone. Mentre Trump proviene dalla realtà televisiva del primo mondo, Duterte è incorporato nella realtà sociale del Terzo Mondo. Entrambi possono abbracciare la “legge e l’ordine”, ma i “muri e le guerre” di Trump non hanno alcuna somiglianza con la realtà. Le polemiche di Duterte, invece, sì.

Le persone che vivono a livello del terreno nelle Filippine capiscono Duterte. Allo stesso modo, le persone che vivono al livello del terreno in Venezuela avevano capito Hugo Chavez. Duterte non è un “socialista del ventunesimo secolo” ma la sua presenza sovverte, per il meglio, l’opinione generale politica che ha dominato la fine del 20° secolo e si è riversata nel 21°.

Il punto è che il metodo conservatore si sta sgretolando agli oscuri confini del mondo. E questa energia può riversarsi nei centri globali. Nella periferia globale “lo shock del nuovo” viene ancora ricercato, anche se è volgare. Soprattutto se è volgare.

E non si può ottenere nulla di così volgare come l’attuale critica di Duterte al popolo dei “diritti umani”. Egli chiede se la loro ossessione per i bambini non sia un segno di pedofilia. Se riusciamo ad aggirare la bizzarria di questa domanda: Duterte ha ragione.

Non volendo sfidare la struttura della vita sociale e politica – i fanatici dei “diritti umani” finiscono per sfruttare la vulnerabilità dei bambini così da ricattare emotivamente il loro pubblico. È un classico trucco delle ONG utilizzato per vendere il prodotto delle ONG: la falsità borghese.

La domanda però è: Duterte vuole sfidare la struttura della vita sociale e politica nelle Filippine? Sta usando, ad esempio, la questione delle droghe allo stesso modo in cui gli “umanitari” usano i bambini? Sta schivando i profondi problemi delle Filippine concentrandosi sulle questioni secondarie?

Duterte afferma che l’obiettivo della sua famigerata “guerra contro le droghe” è quello di eliminare un grave problema nazionale di droga, e di conseguenza promuovere gli investimenti e la crescita economica. Il possesso barbarico delle Filippine, tuttavia, è rimasto da solo in mezzo a tutti questi discorsi di guerra.

Il problema è che le poche famiglie e gli stranieri che posseggono le Filippine possono facilmente consumare qualsiasi crescita economica nell’arcipelago (circa il 6% – se credete all’FMI – l’FMI afferma anche che il tasso di disoccupazione filippino si attesti circa al 5% – e se credete a questo – crederete a qualsiasi cosa). Se la teoria economica della goccia è un mito nel primo mondo – nel terzo è pura fantasia.

Duterte, tuttavia, va avanti con quello che è – nel contesto della povertà filippina – un regime economico sconvolgente e brutale. Permettere al neoliberalismo (il mercato libero) di fare sfracelli tra un popolo che non può stare al passo con l’economia globale è il crimine peggiore (non la droga). E Duterte continua a perpetuarlo.

Allora, dove sta andando? Ha sconvolto i capi locali e internazionali, ma essi continuano a saccheggiare le Filippine impunemente.

Duterte cammina su una corda sospesa su un mare di contraddizioni. Sta esponendo l’economia liberale alla politica post-liberale. Egli rappresenta le classi popolari (noi) – tuttavia segue ancora le élite economiche. Egli corteggia i comunisti (i ribelli formatisi in patria) e i fascisti (addestrati dagli Stati Uniti). Vuole la sovranità nell’era della globalizzazione. È un segno dei nostri tempi sconvolti.

È tuttavia positivo perché punta verso una dinamica popolare che è un anatema per tutte le società politiche educate – la parte liberale della società che vuole uccidere la storia e le persone che nutrono il suo spirito progressista (i miserabili della terra).

La dinamica in questione, tuttavia, non dipende da Duterte, ma dai filippini. Quelli che vivono ai lati delle strade e fuori dai cancelli delle piantagioni. Quelli che girano per il mondo in cerca di lavoro. La responsabilità dell’elezione di Duterte non sta nelle rozze competenze politiche di Duterte, ma nel rozzo realismo politico del popolo filippino. Loro lo hanno votato e loro decideranno il prossimo passo, e la strada costituzionale non è necessariamente la loro.

A Davao e nei dintorni, le persone alla periferia della periferia rimuginano e trascorrono il loro tempo. Nelle loro baracche osservano i loro ceppi. Sono la maggioranza, e formano un vasto serbatoio umano che può inondare e sovvertire la “normale politica” ogni volta che vogliono.

Il comunismo una volta era la loro alternativa. Ora è Duterte. Quando esporrà i suoi limiti, la gente agirà. Il Potere Popolare dopo tutto è nato nelle Filippine (nel 1986). La cosa importante da notare, tuttavia, è che è stata aperta una breccia tra le forze dei liberali. E dove andranno i filippini, noi li seguiremo.

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Articolo di Aidan O’Brien pubblicato su Counterpunch il 18 ottobre 2017.

Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.

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