L’alternativa USA-Australia-Giappone alla Nuova via della Seta ci aiuta a capire perché gli Stati Uniti hanno inviato una delegazione minore in Thailandia e perché l’India si è chiamata fuori dal RCEP [Regional Comprehensive Economic Partnership, Partenariato economico globale regionale].

Il presidente cinese XI Jimping saluta alla cerimonia di apertura del China International Import Expo a Shanghai il 5 novembre. Photo: AFP/Hector Retamal
Sei anni fa il presidente cinese Xi Jinping ha lanciato quella che ora è nota come la Nuova Via della Seta, cioè il più grande e ambizioso progetto infrastrutturale pan-euroasiatico del XXI secolo.
Sotto l’amministrazione Trump, la Nuova Via della Seta è stata totalmente demonizzata h24 e 7 giorni su 7: un cocktail tossico fatto di paura e dubbio, con Pechino incolpata di ogni cosa, dal voler strangolare i paesi poveri con una “trappola debitoria” ai disegni malvagi di dominazione del mondo.
E ora arriva ciò che potrebbe essere descritta come la risposta istituzionale americana alla Nuova Via della Seta: la rete Blue Dot [Punto Blu].
Blue Dot è descritta [in inglese], ufficialmente, come una realtà che promuove un globale e multi-partner “sviluppo infrastrutturale sostenibile nella regione indo-pacifica e in tutto il mondo”.
E’ un progetto congiunto dell’americana Overseas Private Investment Corporation [OPIC, istituto finanziario per lo sviluppo del governo degli Stati Uniti], in partnership con il Dipartimento Australiano del Commercio e degli Affari Esteri e la Japan Bank for International Cooperation.
Ora, fate un paragone con ciò che sta succedendo proprio questa settimana all’inaugurazione dell’Expo China International Import di Shanghai.
Come ha sottolineato Xi: “Ad oggi, la Cina ha firmato 197 documenti inerenti alla cooperazione per la Nuova Via della Seta con 137 paesi e 30 organizzazioni internazionali”.
Questo è ciò con cui si deve confrontare Blue Dot, specialmente rispetto a tutti i paesi del sud del mondo. Beh, non proprio. I diplomatici di questi paesi, contattati informalmente, non si sono esattamente impressionati. Potrebbero vedere Blue Dot come un aspirante rivale della Nuova Via della Seta, ma di un tipo mosso dalla finanza privata, soprattutto (in teoria) americana.
Si fanno beffe della prospettiva che il Blue Dot possa prevedere una qualche sorta di meccanismo di rating che sarà posto per vagliare e declassare i progetti della Nuova Via della Seta. Washington lo spaccerà come processo di “certificazione” che definisce gli “standard internazionali”, definendo implicitamente come sotto-standard quelli della Nuova Via della Seta. Se i paesi del sud del mondo daranno attenzione a questi nuovi criteri, è una questione aperta.
L’esempio giapponese
Blue Dot dovrebbe essere confrontato direttamente con ciò che è appena accaduto [in inglese] al summit in Thailandia, incentrato sugli incontri dell’Asia Orientale, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico [ASEAN] e il RCEP [Regional Comprehensive Economic Partnership].
L’arrivo di Blue Dot spiega perché gli Stati Uniti abbiano inviato in Thailandia una delegazione non di alto livello, e anche perché, in larga misura, l’India abbia perso il treno del RCEP che ha appena lasciata la stazione pan-asiatica.
Il Primo Ministro indiano Narendra Modi sta ancora tra l’incudine (la strategia indo-pacifica di Washington) e il martello (l’integrazione euroasiatica). Sono posizioni incompatibili l’una con l’altra.
Blue Dot è di fatto una estensione indo-pacifica del mercato, che riunisce Stati Uniti, Giappone, Australia e India, cioè i membri del Quad, il gruppo a quattro del dialogo sulla sicurezza. E’ un’immagine riflessa della (defunta) partnership trans-pacifica dell’amministrazione Obama in relazione alla (altrettanto defunta) “pivot to Asia”.
Non è chiaro se Nuova Delhi si unirà al Blue Dot. Ha respinto la Nuova Via della Seta, ma non definitivamente e irrevocabilmente, il RCEP. L’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico] ha provato a farsi coraggio e a ribadire che le differenze saranno appianate e tutti i 16 membri del RCEP firmeranno l’accordo nel 2020 in Vietnam.
Ma la morale della favola non cambia: Washington continuerà a manipolare l’India con tutti i mezzi che riterrà necessari per sabotare, almeno nel teatro del sud-est asiatico, la potenziale Nuova Via della Seta, così come una più ampia integrazione euroasiatica.
Eppure, dopo tutti questi anni di demonizzazione non-stop, la cosa migliore con cui se ne è uscita Washington è stata rubare l’idea della Nuova Via della Seta e rivestirla sotto forma di finanziamenti privati.
Ora, mettetelo a confronto, per esempio, con il lavoro dell’Istituto di Ricerca Economica per l’ASEAN e l’Asia orientale: favoriscono le prospettive dell’ASEAN su quelle indo-pacifiche (un’idea originariamente indonesiana) invece della versione americana. Il presidente dell’Istituto, Hidetoshi Nishimura, lo descrive come “linee guida per il dialogo con i partner” e sottolinea che “la visione che il Giappone ha dell’area indo-pacifica si adatta molto bene con quella dell’ASEAN”.
Così come Nishimura nota che “è ben noto che il Giappone sia stato il donatore principale e un vero partner nello sviluppo economico dell’Asia sudorientale negli ultimi cinquant’anni”, celebra anche il RCEP come il “simbolo del libero commercio”. Sia Cina che Giappone stanno fermamente dietro al RCEP. E Pechino sta anche fermamente sottolineando il collegamento diretto tra RCEP e la Nuova Via della Seta.
Alla fine, Blue Dot potrebbe essere nulla più di un esperimento PR, troppo ridotto e troppo tardivo. Non impedirà l’espansione della Nuova Via della Seta. Non impedirà la partnership di investimento tra Cina e Giappone. Non impedirà a tutti i paesi del sud del mondo di rendersi conto dell’utilizzo strumentale del dollaro a fini geopolitici.
E non seppellirà lo scetticismo predominante riguardo alle capacità di sviluppo progettuale di una iperpotenza impegnata nella missione di rubare le riserve petrolifere di un’altra nazione durante l’occupazione illegale della Siria.
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Articolo di Pepe Escobar pubblicato su The Saker il 7 novembre
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per Saker Italia
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