
Manifesto digitale a Erevan (Armenia) che mostra immagini della guerra.
Nell’ultima settimana di settembre, un’offensiva azera ha rinnovato le ostilità nel perenne conflitto armato nel Caucaso meridionale tra l’Armenia e il suo vicino sulla regione del Nagorno Karabakh (“il Montuoso Karabakh”). Ad ottobre, gli scontri si sono intensificati poco oltre il confine di stato tra l’Azerbaigian e la Repubblica dell’Artsakh, non riconosciuta a livello internazionale, che aveva subito pesanti bombardamenti da parte degli azeri, con ordigni a grappolo di fabbricazione israeliana, vietati dalle convenzioni internazionali. Nel frattempo, l’Armenia ha reagito con attacchi in Azerbaigian fuori dall’enclave contestata, con vittime civili segnalate da entrambe le parti nella ripresa più drammatica dei combattimenti dal cessate il fuoco mediato dalla Russia nel 1994. Dopo la vittoria di Baku in seguito alla riconquista della città di Shusha, che era sotto il controllo dell’Artsakh dal 1992, un nuovo armistizio è stato firmato il mese scorso dal presidente azero Ilham Aliyev, dal Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan e dal presidente russo Vladimir Putin. Tuttavia, ciò che ha distinto questa riaccensione della guerra dalle precedenti scaramucce non è stata solo la gravità, ma la sua istigazione diretta da parte della Turchia con l’appoggio militare all’Azerbaigian, che ha incluso il reclutamento, ampiamente pubblicizzato, di mercenari jihadisti dalla Siria.
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, la disputa sui confini non risale a secoli fa, e le sue radici sono relativamente moderne, nonostante la persecuzione storica interrelata degli armeni da parte dei turchi e dell’Impero Ottomano. Come molti hanno notato, le basi per la guerra iniziata nel 1988 non furono gettate nell’antichità, ma decenni fa, durante l’istituzione delle repubbliche sovietiche nel Caucaso meridionale, dopo la Rivoluzione Russa. Più specificamente, la controversa decisione di Iosif Stalin nel 1921 di incorporare la regione nell’Azerbaigian, avrebbe avuto enormi conseguenze quando l’URSS si sarebbe poi dissolta, poiché la stragrande maggioranza della popolazione all’interno del territorio montuoso era storicamente di etnia armena. Sebbene ciò possa essere in parte da biasimare, gran parte delle miopi analisi sull’attuale riacutizzazione hanno semplificato eccessivamente le sue basi, ponendo la responsabilità esclusiva sulle decisioni politiche prese dalla leadership sovietica decenni fa invece di affrontare le vere ragioni del “conflitto congelato” nel Caucaso meridionale.

Lenin.
Vladimir Lenin una volta descrisse l’Impero Russo come una “prigione di popoli” [in inglese] o un “carcere di nazioni” in riferimento alle oltre 120 nazionalità diverse colonizzate dall’autocrazia zarista. Dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale e la rivoluzione russa, la demografia della Transcaucasia venne modificata con i cambiamenti dei confini che hanno aumentato la composizione generale degli armeni etnici, molti dei quali erano stati sfollati dal genocidio. Tuttavia, anche un secolo prima, il Nagorno Karabakh era ancora più del 90% armeno, nonostante il Caucaso meridionale comprendesse generalmente molte comunità etniche diverse. Nel XIX secolo, l’influenza delle concezioni europee del nazionalismo portò i vari gruppi della regione, che si stavano mescolando tra loro, a ridefinire le loro identità in termini sempre più etno-territoriali e nazionalisti. Per risolvere la questione nazionale, i sovietici adottarono una politica che incoraggiava l’istituzione di repubbliche e confini amministrativi che purtroppo non sempre si allineavano perfettamente con le popolazioni sovrapposte e mescolate.
Dopo la rivoluzione russa, la Transcaucasia era inizialmente una repubblica sovietica unificata composta da Armenia, Azerbaigian e Georgia, ma che presto si divise in tre stati separati. Anche se l’Artsakh venne promesso all’Armenia, il Nagorno Karabakh fu poi concesso da Stalin (di origine georgiana) all’Azerbaigian contro la volontà della sua popolazione, ma con ampie autonomie. Tuttavia, è importante riconoscere che, nonostante questa fatidica decisione, sotto l’URSS per sette decenni le due parti hanno tenuto una convivenza per lo più pacifica, mentre gli armeni del Karabakh hanno continuato a sostenere la riunificazione con la loro patria senza spargimenti di sangue. Questo non vuol dire che non siano stati commessi errori dai leader sovietici, che erano spesso in disaccordo sulla questione nazionale, ma uno dei risultati distintivi del Socialismo è stato ridurre notevolmente i conflitti spesso sanguinosi tra gruppi oppressi che condividevano spazi nazionali. Fu solo durante la Glasnost e la Perestrojka che le lamentele sociali del Caucaso meridionale assunsero un’espressione irredentista, che divenne violenta in Nagorno Karabakh, proprio come accadde in Abkhazia e Ossezia del Sud, in Georgia e in Cecenia, nel Caucaso settentrionale.
La ricolonizzazione dell’Europa orientale da parte del capitale straniero ha incluso l’incoraggiamento dei movimenti indipendentisti secessionisti e nazionalisti in tutta la sfera post-sovietica, e il Caucaso meridionale non ha fatto eccezione. Il modello per l’egemonia occidentale sull’est – basato sulla “teoria dell’Heartland” del fondatore britannico della moderna geopolitica Sir Halford Mackinder, il cui “The Geographical Pivot of History” sottolineava l’importanza strategica dell’Europa orientale – è stato messo in pratica da Zbigniew Brzezinski, Consigliere sulla Sicurezza Nazionale nell’amministrazione di Jimmy Carter. Mentre Brzezinski, nato in Polonia, ha creato l’equivalente sovietico della Guerra del Vietnam e il “Grande Gioco” dell’impero statunitense fornendo armi letali ai mujaheddin afgani, ha anche istituito il Nationalities Working Group (NWG), incaricato di incitare le tensioni etniche tra i gruppi non russi nell’orbita sovietica. Dopo il collasso dell’URSS, Brzezinski e la congrega atlantista hanno continuato a progettare il completo ridimensionamento e balcanizzazione dell’Eurasia, incitando divisioni etno-nazionaliste nelle ex “nazioni prigioniere” dietro la Cortina di Ferro, anche dopo il ristabilimento del libero mercato.
La strategia machiavellica di Brzezinski è stata cristallizzata nel suo libro del 1997 The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, che non solo profetizzava l’espansione orientale della NATO ai confini della Russia, ma la rinascita dell’Islamismo e del pan-Turchismo nel Caucaso post-sovietico e nell’Asia centrale. In qualità di discepolo intellettuale di Mackinder, Brzezinski ha attinto dalle sue idee, che per prime teorizzavano l’importanza di allontanare il Caucaso meridionale ricco di petrolio, dalla sfera di influenza di Mosca. L’Azerbaigian è stato uno dei primi paesi ex sovietici a diventare una base del potere occidentale dopo il colpo di Stato appoggiato dalla CIA del 1993, che ha spodestato il governo democraticamente eletto di Abulfaz Elchibey, e portato al potere Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente azero, che spinse il paese lontano da Mosca e iniziò l’azerificazione del Nagorno Karabakh. Due anni dopo, Brzezinski ha visitato l’Azerbaigian [in inglese] e ha contribuito a organizzare l’Oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che collega il bacino petrolifero del Mar Caspio dall’Azerbaigian attraverso la Georgia alla Turchia.
Dal 2018, anche l’Armenia rischia di diventare uno stato cliente occidentale dopo la cosiddetta “Rivoluzione di velluto” che ha insediato l’attuale Primo Ministro Nikol Pashinyan, che ha premiato il finanziere internazionale russofobo George Soros con nomine nel suo nuovo governo direttamente dalla rete ungherese di ONG miliardarie, che ha sponsorizzato le manifestazioni di massa [in inglese] che hanno rovesciato il Presidente Serzh Sarsgyan. Da allora Pashinyan si è impegnato a firmare un accordo di associazione all’Unione Europea, ma prima dovrà ritirare Erevan dall’Unione Economica Eurasiatica russa. A seguito dell’accordo di cessate il fuoco di novembre, Pashinyan è diventato lui stesso oggetto di proteste diffuse da parte degli armeni, che hanno incluso l’assalto al palazzo del Parlamento di Erevan, poiché molti erano furiosi per la sua resa prematura della città strategica di Shusha, che era stata sotto il controllo dell’Artsakh sin dal fine della prima guerra del Nagorno Karabakh.

Soros e Pashinyan – Il primo è stato fondamentale nell’organizzare la rivoluzione colorata del 2018. Ma ora Soros potrebbe non riuscire a salvarlo.
Si dà il caso che Soros abbia anche dato impulso finanziario al gruppo per i diritti civili Charta 77, che guidò la “Rivoluzione di Velluto” originale del 1989, che depose il governo Marxista-Leninista in Cecoslovacchia; ma non ditelo alla destra, che immagina falsamente Soros come uno spauracchio “comunista” nonostante la sua occupazione come magnate globale dei fondi speculativi. La “rivoluzione colorata” dell’Armenia del 2018 è stata identica ai molti movimenti di protesta filo-occidentali, che hanno portato un cambio di regime nei paesi dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, che è stato prototipato per la prima volta durante la caduta del Comunismo in Cecoslovacchia, Polonia e nel blocco orientale. La successiva elezione di Pashinyan avrebbe dovuto ripristinare i negoziati con Baku, ma invece c’è stata una recrudescenza delle violenze nell’enclave. Non a caso, non appena il governo armeno ha iniziato ad avvicinarsi all’UE e ad allontanarsi da Mosca, è iniziata una ripresa degli scontri. Gli armeni dovrebbero diffidare di Soros, che, in base alle sue stesse parole, tira i fili dietro il loro governo. Anche se il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha diffamato la Open Society Foundation, l’investitore a marzo ha pubblicato un editoriale [in inglese] sul Financial Times che lodava il neo-sultano mentre demonizzava Putin.

Proteste a Erevan contro l’accodo di cessate il fuoco del 2020 in Nagorno Karabakh.
Dal punto di vista armeno, è impossibile separare l’aiuto diretto della Turchia agli azeri durante la guerra in corso, dalla sua memoria collettiva del genocidio che Ankara e Baku negano ancora oggi. Può essere interpretato solo come una minaccia esistenziale e un segno delle aspirazioni neo-Ottomane di Erdoğan. Per chiunque dubiti delle ambizioni espansionistiche della Turchia, è stato riferito anche che Ankara da allora ha reclutato mercenari siriani al confine con la Grecia e nel Kashmir. L’esportazione di terroristi stranieri da Afrin e Idlib nel Nagorno Karabakh ha portato a crimini di guerra come la decapitazione di soldati armeni [tutti e tre i link in inglese]. Nonostante la reputazione dell’Azerbaigian come il paese più laico del mondo Musulmano, sembra che le pratiche dei tagliateste Islamisti Sunniti siano state trasmesse alle sue forze armate, in teoria Sciite. Il sostegno della Turchia introduce anche una dimensione internazionale, che presenta il pericolo che il conflitto si trasformi in una guerra per procura che minaccia di attirare Israele, Iran, Russia, Stati Uniti e altri giocatori.

L’uomo forte turco Erdogan conferisce col leader azero Ilham Aliyev durante una visita a Baku. Ad Erdogan piacerebbe essere visto come un campione dei popoli turchi e Islamici.
Il contesto geopolitico della guerra non è semplice. Il sospetto di Ankara del coinvolgimento degli Stati Uniti nel tentativo di colpo di Stato turco del 2016, e il rifiuto di Washington di estradare il religioso islamico, sponsorizzato dalla CIA, Fetullah Gülen dalla Pennsylvania, hanno messo a soqquadro le relazioni USA-Turchia, e le relazioni si sono ulteriormente inasprite dopo l’acquisto da parte di Ankara del sistema missilistico russo S-400, a dispetto dei suoi impegni con la NATO. L’incorporazione dei curdi nella coalizione delle Forze Democratiche Siriane (SDF) per combattere il Daesh, da parte degli Stati Uniti, ha spinto la Turchia ancora più vicino al campo di Mosca. Sia per punire Ankara che per rimproverare il ritiro delle truppe da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dal nordest della Siria, che ha accelerato l’invasione turca del territorio controllato dai curdi lo scorso anno, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha opportunisticamente approvato una risoluzione che riconosce formalmente il genocidio armeno dopo decenni di rifiuto. Tuttavia è stata fermata al Senato poiché i gruppi di pressione turchi e azeri rimangono un attore di primo piano nel lobbismo degli agenti stranieri, superato solo dai Sionisti. A livello del Congresso, anche la deputata “progressista” Ilhan Omar (Democratica del Minnesota) che ha ricevuto donazioni dalla lobby turca e ha tenuto riunioni a porte chiuse con Erdoğan, si è astenuta riguardo al disegno di legge.

La diaspora armena ha organizzato dimostrazioni di sostegno in tutto il mondo, incluso in città come Barcellona (qui raffigurata) e Los Angeles.
Alcuni analisti intenzionati, intenti ad abbellire la Turchia, hanno suggerito che a causa del raffreddamento delle relazioni tra gli Stati Uniti e il suo alleato della NATO negli ultimi anni, insieme all’avvicinamento dell’Armenia all’UE, sarebbe in qualche modo vantaggioso per Mosca favorire una vittoria azera. Anche se fosse vero, sottovalutano il rapporto storico tra Russia e Armenia come protettrice dei sudditi Cristiani Ortodossi del dominio Ottomano. In realtà, per Mosca è preferibile solo un atto di equilibrio e una vittoria diplomatica che risolverà ciò che gli Stati Uniti e la Turchia stanno istigando. Tre decenni dopo lo scioglimento dell’URSS, il “Vicino Estero” della Russia è stato quasi completamente assorbito dall’UE e dalla NATO, che hanno infranto la loro promessa di non espandersi oltre la Germania orientale, e con le tensioni tra Washington e Mosca che hanno raggiunto un punto che non si vedeva dal culmine del Guerra Fredda. Anche se Putin è diventato abbastanza abile nel negoziare compromessi ai conflitti nazionali, come ha fatto nel Caucaso settentrionale ponendo fine alle guerre cecene, qualsiasi nuovo cessate il fuoco mediato nel Nagorno Karabakh sarà solo un cerotto a breve termine su una ferita profonda, almeno finché le regioni dell’ex Unione Sovietica rimarranno capitaliste e obiettivo dell’imperialismo, che può seminare dissensi tra i loro eterogenei abitanti.
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Articolo di Max Parry pubblicato su The Greanville Post il 24 dicembre 2020
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per Saker Italia.
[le note in questo formato sono del traduttore]
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