Sopra il 3% il bilancio pubblico italiano diventa insostenibile, titola l’ Economist. Proseguendo poi con il consiglio, rivolto a chi non crede in rotture dell’ eurozona, di comprare, dando per scontato che gli altri paesi saranno costretti a intervenire. Lasciamo però perdere questa seconda affermazione, non del tutto scorretta, e concentriamoci sulla prima.

E’ vero che sopra il 3% andiamo incontro al baratro finanziario, a meno che qualcuno ci salvi? L’ Economist non fornisce  nessuna argomentazione a sostegno delle proprie affermazioni, se non una generica idea che, sorpassato la soglia psicologica del 3%, il rendimento per i btp decennali arriverà  rapidamente al 6%. Potrebbe essere oppure no. Ma siamo generosi e prendiamo la possibilità come reale. Dopotutto, con le turbolenze che si stanno accumulando in giro per il mondo, un simile scenario, se anche non dipendesse dalla politica italiana, sarebbe comunque un’opzione da vagliare.

Proviamo quindi spannometricamente a fare dei calcoli, con la precisazione che, non avendo sottomano il calendario delle aste 2019, dovremmo attenerci a dei valori medi.  Prendiamo quindi il tasso medio all’emissione del debito ipotizzando che il btp a 10 anni possa finire, come dice l’Economist, e come non è prudente escludere a priori, al 5,5/6% di rendimento annuale.

Per vedere quanto pagavamo le nuove emissioni quando il btp a 10 anni rendeva il 5,5/6% annuo basta guardare le 2 successive tabelle e incrociare i dati

Cosa scopriamo? Nell’anno “montiano” 2012 i nostri btp decennali rendevano il 5,5/6% . Ed il tasso medio all’emissione del debito era di 3,11%. Ora per completare la lista dei dati su cui poi andremo a ragionare ci manca solamente conoscere l’importo di titoli di Stato che ogni anno viene rifinanziato in asta dallo Stato Italiano. Per ricavarlo basta prendere il complessivo del debito pubblico italiano (circa 2300 miliardi) e dividerlo per il numero degli anni di vita residua ponderata dello stesso (in breve ogni quanto si rinnova completamente il pacchetto di titoli che costituisce il debito pubblico italiano) cioè 6,76. Dividendo i due valori otteniamo che ogni anno rifinanziamo circa 330 miliardi di debito.

Ecco. Ora i dati li abbiamo tutti e possiamo metterci a ragionare sull’ipotesi formulata dall’ Economist. Quanto ci costerebbe, in termini di maggiori interessi sul debito, un btp al 5,5/6%? Sarebbe insostenibile in sé?

Prendendo la prima tabella (quella del tasso medio all’emissione) vediamo che, ad oggi (30/09/2018) quel tasso è dell 0,93%. Se dovessimo ipotizzarlo al 3,11 (tasso di emissione medio nel 2012 quando appunto i btp a 10 anni rendevano il 5,5/6%) avremmo un costo di circa 2 punti maggiore di quello attuale. Che su 330 miliardi di rifinanziamento equivarrebbe ad un maggiore onere per interessi di circa 7 miliardi annui.

A scadenza dell’intero rollover del debito (quei 6,76 anni in cui il debito viene completamente rimpiazzato da nuovi titoli), lasciando stare per semplicità e mancanza di informazioni la questioni derivati,  il costo sarebbe di circa 45 miliardi.

Tanto? Si. Si tratterebbe, a regime, di circa 2,5 punti di Pil, l’intero deficit previsto quest’anno per la manovra economica. O due terzi (per ogni singolo anno) della cifra stanziata per il reddito di cittadinanza.

Insostenibile? No: dipende quanto, nello stesso periodo crescerebbero Pil e inflazione. Se questa crescita fosse discreta, o addirittura elevata, sarebbe recuperare anche l’intero importo.

Ma ora guardiamo le cose da un altro punto di vista, ignorato dall’ Economist e dai commentatori liberali nostrani, quello dei detentori di quel debito. I creditori, i rentier, coloro i quali quei titoli li hanno in mano. 

Cosa succederebbe a loro? Prendiamo anche qui dei dati medi, essendo le scadenze e le quotazioni dei vari btp decisamente diverse fra loro, e paragoniamoli con quelli che erano i dati medi nel 2012.

Oggi il future sul Btp (una media delle varie emissioni e scadenze) quota attorno ai 120. Nel 2012, quando i tassi del decennale erano intorno al 5,5/6 (quindi una situazione uguale a quella che si verificherebbe nell’ ipotesi negativa che stiamo studiando) quotavano 100. Parliamo quindi di una perdita secca del 20% del valore in portafoglio dei titoli dei vari investitori dalle quotazioni odierne. In altre parole i titoli già nella pancia degli investitori perderebbero di valore.  Il problema ragionevolmente sta tutto lì, oltre che nell’incubo (dal punto di vista dell’ investitore) di un’eventuale Italexit che, anche con una inflazione moderata del 4/5%, mangerebbe via una quota anche maggiore di quel 20% ai nostri creditori.

Chi subisce questa perdita? Per capirlo dobbiamo vedere chi ha in mano ad oggi i titoli di stato Italiano. Su 2300 miliardi circa di debito, 700 sono in mani di istituzioni finanziarie estere, 450 circa di banche italiane, altri 450 di fondi e assicurazioni italiani, 400 circa sono in capo a Bankitalia (tramite quantitative easing)  e il restante (circa 300 miliardi complessivi) a privati o imprese italiane o estere.

Sono dati molto eloquenti, che mostrano chiaramente la spada di Damocle che incombe sulle teste di queste realtà. Una svalutazione del 20% significherebbe maggiori costi per 150 miliardi per investitori esteri e 100 a testa fra banche e assicurazioni/fondi (in questi ultimi vi sono anche privati cittadini, ma molti sono in mano a loro volta ad altre istituzioni). Il che ci fa capire che forse non sarebbe tanto lo Stato ad avere una situazione di insostenibilità finanziaria nel caso i Btp che raggiungessero il 5,5/6%, ma i creditori stessi.

I quali  dovrebbero mettere a bilancio una perdita notevole rispetto ai valori attuale sul capitale investito. In particolar modo il sistema bancario, che riporta a bilancio i btp all’interno del CET1 (il capitale proprio della banca), parametro che deve rimanere superiore a determinate soglie percentuali rispetto alle attività di rischio (come appunto i prestiti) della Banca stessa.  Il valore di questi btp nel bilancio bancario è riportato a valori di mercato (mark to market) e pertanto nel periodo di vacche grasse (almeno da questo punto di vista)  seguito al whatever it takes di Mario Draghi, la crescita di questo valore ha consentito agli istituti finanziari di tamponare, almeno parzialmente, i buchi di bilancio creati da prestiti inesigibili. Buchi che però oggi si tornerebbero evidenti, forse in scala anche maggiore, a fronte di una svalutazione di quegli asset, e che costringerebbero i nostri istituti a onerosi se non pericolosi aumenti di capitale.

Vista in quest’ottica l’insostenibilità del debito italiano è soprattutto problema dei creditori e del valore dei titoli che custodiscono gelosamente in portafoglio. Il che spiegherebbe abbastanza bene il terrore con cui i nostri eroici commentatori mainstream/bocconiani vedono l’aumento dello “spread”. Che prima di minacciare la sostenibilità dello stato italiano minaccia le tasche ricolme degli editori di riferimento di tali personaggi, poco inclini a finire a gambe all’aria a causa di politiche non perfettamente in linea con l’ortodossia mercatista.

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Articolo di Amos Pozzi del 9 ottobre 2018 per Saker Italia

 

 

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