Pioveva a Torino. Una pioggia del nord Europa. Del tipo che dura. Attraverso le grandi finestre del ristorante, l’ampio viale fiancheggiato da platani puntava verso le Alpi imbiancate all’orizzonte. La pioggia, gli alberi, le montagne lontane e il silenzio creano una sensazione di nostalgia. Nostalgia per cose che c’erano una volta erano e possono esserci di nuovo. Anche la manciata di giornalisti è insolitamente silenziosa; stuzzicano il delicato antipasto della nouvelle cuisine servito in silenzio da giovani e magre cameriere in uno dei migliori ristoranti di Torino.

L’atmosfera del ristorante riflette soprattutto buon gusto. Il buon gusto della moderazione e dei limiti. Il buon gusto regnante nella Torino di Gianni Agnelli, nella città della FIAT e nello Juventus Football Club di Agnelli. I giornalisti stranieri degli anni ‘80 incontravano di frequente il buon gusto degli eventi sponsorizzati da FIAT e Gianni Agnelli: visite alle grandi fabbriche automobilistiche FIAT del vecchio Lingotto, nel sudovest di Torino, e alla vicina FIAT Mirafiori; mostre d’arte annuali nel Palazzo Grassi, di proprietà della FIAT, sul Canal Grande a Venezia, ristrutturato come palazzo d’arte dall’architetto milanese Gae Aulenti. Un naturale buon gusto torinese-Agnelli mai acquisito dallo squalo milanese, Silvio Berlusconi. Gianni Agnelli era un modaiolo disinvolto e giovane.

Questo fu il periodo d’oro dell’Avvocato, come Agnelli era noto popolarmente. Era nel fiore degli anni. Agnelli l’imprenditore, Agnelli il politico, Agnelli il playboy. Agnelli il donnaiolo – tra le sue conquiste ci sono forse Anita Ekberg e Jackie Kennedy. Agnelli in costante movimento: pranzo a Venezia o Parigi, un giorno a Roma per un voto in Parlamento in qualità di Senatore a Vita o una cena con il suo amico, Giovanni Berlinguer [per tutto l’articolo l’autore confonde Enrico Berlinguer col fratello Giovanni], capo del PCI, il Partito Comunista Italiano, o un lungo weekend nella sua amata New York, nel suo appartamento di Park Avenue. D’inverno sciava a St. Moritz, d’estate veleggiava con suo figlio Edoardo, o faceva yachting con VIP internazionali sul Mediterraneo.

Giovanni “Gianni” Agnelli (1921-2003) era un capitalista, così come la famiglia Agnelli e i loro associati. Capitalisti illuminati. E Gianni pensava a sé stesso in quel modo. A sua volta si era guadagnato l’amore e la stima dei suoi lavoratori perché mostrava un interesse personale per il loro benessere, il che, a sua volta, rafforzava i suoi legami con il PCI e con i sindacati.

AGNELLI SI VEDEVA LETTERALMENTE COME UN UOMO ECCEZIONALE, VIVENDO LA SUA VITA FUORI DAI CONFINI DELLA CLASSE E DELLA STORIA STESSA…

Eppure lui stesso viveva una vita da favola: la sua grande casa di famiglia in collina, nella zona di bassa montagna oltre il Fiume Po, dove vivono i ricchi di Torino; la tenuta di campagna Agnelli in Piemonte; un appartamento a Roma; un altro su Park Avenue; un palazzo sul Canal Grande di Venezia. Tutto lussuoso, tutto di buon gusto. La fortuna di Agnelli era incommensurabilmente enorme.

In realtà l’estensione della fortuna di Agnelli è ai giorni nostri oggetto di controversie e misteri. Le verifiche dei conti non hanno risolto l’enigma. Le indagini finanziarie non hanno raggiunto il fondo della diaspora di una parte nascosta della fortuna Agnelli. Si pensa che la parte “in nero” ammonti a molto di più di ipotetici quattro miliardi di fondi neri conservati da qualche parte nel firmamento dell’offshore. In tal caso, se e quando dimostrato, questo vorrebbe dire un caso di evasione fiscale per fondi rubati ai lavoratori e ai cittadini italiani. La quantità di denaro rubato è di minore importanza. L’importante è che le autorità fiscali – italiane o straniere – furono truffate, e che queste attività divennero ordinaria amministrazione sottobanco.

Ancora una volta, Gianni Agnelli era un capitalista. Un capitalista buono. Strinse anche amicizia con il Partito Comunista Italiano, in particolare con il suo leader, Giovanni Berlinguer, amato dai lavoratori italiani e dagli italiani in generale. E Agnelli fece amicizia con gli ancora potenti sindacati e affrontò i problemi sociali dei suoi lavoratori. Allo stesso tempo – cosa alle radici del male del capitalismo – rubava. Non solo alle autorità fiscali mondiali, ma stava intascando e aggiungendo alla sua fortuna personale una parte del plusvalore che i suoi lavoratori producevano in tutto il mondo – dalla Russia all’America Latina – il plusvalore creato con il loro lavoro.

Quindi anche se la società capitalista proietta Gianni Agnelli come un simbolo di “buon capitalismo”, era senza ombra di dubbio un simbolo del capitalismo tout court. Un simbolo del capitalismo al suo peggio, perché era un lupo travestito da pecora, cosa che rende insignificanti le distinzioni tra capitalismo buono o cattivo.

Inoltre, ci sono stati casi palesi in cui la benevolenza di Agnelli degenerò in malevolenza, trasformandolo da amico dei lavoratori a sfruttatore capitalista della classe operaia, sottolineando di nuovo che gli interessi della classe operaia non sono mai stati e non potranno mai essere conciliati con il capitalismo. La lotta di classe esiste oggi, è sempre esistita e continuerà ad esistere. Nessun “capitalismo buono” può alterare questa realtà.

Mentre nel ristorante nouvelle cuisine le magre cameriere servivano in silenzio il delicato e non identificabile primo piatto, i giornalisti rimaneggiavano in toni delicati lo sciopero generale del 1980, una bestia rara nel Bel Paese. Gli operai della FIAT avevano marciato su e giù per i viali alberati di Torino, come quello fuori dalle finestre del ristorante. Lo sciopero durò trentacinque giorni e bloccò tutta la produzione alla FIAT, quando si materializzò la cosiddetta Marcia dei Quarantamila, i quarantamila lavoratori che marciarono per le strade di Torino chiedendo “il diritto di andare al lavoro”. Crumiri al lavoro; e lo sciopero generale si spense.

Quel 14 ottobre segnò una svolta e un brusco crollo dei sindacati italiani, con cui Agnelli aveva mantenuto buoni rapporti. Da quel momento storico i sindacati italiani non ebbero mai più la stessa influenza nella società italiana e nella politica nazionale. Il rapporto di Gianni Agnelli con la sinistra italiana, in particolare con il PCI di Giovanni Berlinguer, aveva precedentemente rappresentato l’essenza delle relazioni industriali con il mondo politico e aveva drasticamente indebolito il potere dei sindacati. Quel periodo finì.

Vent’anni dopo, nel 2000, un’altra delle tante tragedie familiari colpì gli Agnelli: l’unico figlio maschio di Gianni, Edoardo, si suicidò all’età di 46 anni. Nato a New York, studiò a Torino e frequentò l’università di Princeton, Edoardo era l’erede naturale maschio della leadership della FIAT, che come da tradizione passava di padre in figlio. Eppure era sia inetto che disinteressato al mondo degli affari. Gli interessi di Edoardo erano il misticismo, il Buddismo e l’Islam, la difesa dei poveri… e inoltre era presumibilmente anticapitalista. La sua vita era solitudine e infelicità, intrappolata tra ciò che voleva fare della sua vita e ciò che la sua amorevole famiglia si aspettava da lui: Edoardo era sia l’amore che la disperazione dei suoi genitori adoranti. Ma Edoardo Agnelli e il capitalismo del quale la FIAT era il simbolo erano incompatibili, come erano incompatibili il capitalismo borghese e gli interessi autentici della classe operaia. La leadership dell’impero Agnelli non aveva posto nel mondo di Edoardo. Il 15 novembre guidò la sua Fiat Croma fino ad un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, e si buttò giù.

E tre anni dopo, il 24 gennaio 2003, Gianni Agnelli morì di cancro alla prostata, forse anche di dolore per il suo figlio “ribelle”.

In quell’elegante ristorante torinese alla Gianni Agnelli a metà degli anni ‘80, il significato della svolta di Agnelli nel 1980 pesava molto. Noi giornalisti stranieri eravamo consapevoli che era troppo sofisticato e civilizzato per “odiare” visceralmente i Comunisti, poiché amava la vita e la natura umana in tutte le sue forme, ma rimase fedele alla classe capitalista di cui faceva parte. Il ruolo di “capitalista buono” rimase relegato alla sua gioventù indulgente ed edonistica.

Agnelli era un sostenitore dell’intrusione americana negli affari europei. I suoi veri soci erano i Kissinger del mondo. Lui stesso era membro del Bilderberg. Diede il suo sostegno alla NATO, anche se fece affari anche con la Russia e costruì fabbriche lì, come ha fece in molti posti del mondo, compresa l’America Latina. Non vedeva alcun bisogno dei rischi impliciti di una lotta di classe per un reale cambiamento nei sistemi socio-politici in carica. Agnelli non si sincronizzò mai con la nuova Italia borghese, né con la patria del capitalismo oltreoceano. Forse per Gianni Agnelli il capitalismo non poteva che progredire da buono a migliore. Rimase seduto all’apice del potere sociale per tutta la vita, ma plasmato da forze storiche che non è mai arrivato a comprendere pienamente (né a rispettare), lui – come il resto della sua classe – rimase ostinatamente cieco alla realtà che si dipanava intorno a lui, un ostacolo all’arrivo di un mondo disperatamente necessario.

APPENDICE VIDEO: Gianni Agnelli e la sua Dolce Vita.

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Articolo di Gaither Stewart pubblicato su The Greanville Post il 13 ottobre 2018.
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.

[le note in questo formato sono del traduttore]

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