Nei Balcani non si può smettere di preoccuparsi per un momento. Il prossimo conflitto sembra sempre scrutare dietro l’angolo con malizioso entusiasmo, desideroso di balzare su punti di vantaggio demagogico e sofferenza personale. I punti centrali del disastro futuro nella regione tendono ad essere il Kosovo e la Bosnia. Il primo è ora intenzionato a formalizzare accordi militari, modellando così una lancia che potrà essere affondata in profondità nel cuore dell’orgoglio serbo.

Venerdì l’Assemblea del Kosovo ha approvato con numeri schiaccianti tre progetti di legge per formare un esercito. (I legislatori serbi hanno boicottato la sessione). L’attuale Forza di Sicurezza del Kosovo composta da 3.000 uomini armati alla leggera diventerà un po’ più formidabile: 5.000 soldati attivi con alle spalle 3.000 riservisti nel prossimo decennio. Questa è una mossa sfacciata, un’affermazione secondo cui la sicurezza fornita dalle 4.000 truppe NATO che formano la KFOR (la Forza del Kosovo), è inadeguata e, più precisamente, da aggirare del tutto.

È anche un assalto calcolato, cronometrato per colpire i serbi del Kosovo – circa 120.000 – e i politici a Belgrado, che suggerisce un netto cambiamento dai negoziati di tre mesi fa. Allora sembrava che fosse in via di sviluppo un’offerta di scambio di territori [in inglese], che avrebbe rispecchiato la composizione etnica rilevante ma tesa nella regione: la Valle di Preševo, nel sud della Serbia, prevalentemente albanese, si sarebbe unita al Kosovo; la Serbia avrebbe ristabilito il dominio sull’area a maggioranza serba del Kosovo a nord del Fiume Ibar.

Le cose successivamente si sono inasprite. Il Kosovo aveva già deciso di imporre dazi del 100 per cento [in inglese] sulle importazioni dalla Serbia, una mossa economicamente folle, ma chiaramente campanilistica. Il Primo Ministro Ramush Haradinaj ha giustificato l’azione dando la colpa agli sforzi di Belgrado per sabotare la sua richiesta di ammettere il Kosovo nell’Interpol. L’aggressione di Belgrado è stata citata su tutti i fronti: dal ribollente Vice Primo Ministro ribelle Enver Hoxhaj; dal ministero degli Esteri (che ha citato l’“offensiva” attività di lobbysmo della Serbia); e dallo stesso Primo Ministro.

Avere un esercito del genere sarà un altro fiore all’occhiello degli obiettivi del Kosovo di consolidare le sue credenziali di sovranità e tagliare il cordone ombelicale con Belgrado. Il pericolo qui, come sempre, è il modo in cui i serbi, sostenuti dai loro protettori indignati, risponderanno. La bravata di Haradinaj è stata affermare [in inglese] che le forze saranno “multietniche, al servizio dei propri cittadini, in funzione della pace, insieme ad altri eserciti regionali, tra cui l’esercito serbo, in una partnership per la pace”. I suoi funzionari insistono anche su un ruolo modesto per il nuovo esercito, che sarà dedito [in inglese] a “operazioni di ricerca e soccorso, smaltimento di ordigni esplosivi, estinzione degli incendi e smaltimento di materiali pericolosi”. Nulla, in breve, di cui preoccuparsi.

La regione sta già subendo una forma di schizofrenia legale, creata da disposizioni legali e di sicurezza più adatte ad un manicomio che a uno stato funzionante. I paesi in Europa che affrontano i loro dilemmi separatisti sono stati risoluti nel non riconoscere il Kosovo. Non sorprende che la Spagna sia il principale tra questi. A gennaio, il Ministero degli Esteri spagnolo ha espresso [in inglese] l’opinione che il Kosovo deve essere tenuto fuori da qualsiasi piano per l’allargamento nei Balcani occidentali. “Il concetto di “WB6” non si adatta alla dinamica dell’ampliamento. Il Kosovo non fa parte del processo di allargamento e ha un proprio quadro differenziato”.

In realtà, gli albanesi kosovari sanno di poter contare su un grande sostegno all’interno dei ranghi europei: la voglia di proteggere gli interessi serbi si è persa da tempo, durante le guerre balcaniche degli anni ‘90. Lodati difensori divenuti macellai demonizzati. Il Kosovo ha assunto la forma di un progetto personale, da coltivare per interessi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti sotto la tenda fittizia dell’umanitarismo. Invariabilmente, la Serbia ha cercato il sostegno della Russia e della Cina, che hanno costantemente respinto la dichiarazione di indipendenza del 2008 dalla Serbia.

Per il presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha parlato [in inglese] a Trstenik giovedì, “Kosovo e Metohija sono per noi un grande tormento, soprattutto a causa della mossa di Pristina e dell’annuncio della formazione di un esercito, che non è basato né sulla legge né sulla Risoluzione 1244”. Il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dačić ha ritenuto la formazione di un simile esercito “la minaccia più diretta alla pace e alla stabilità nella regione”.

Tali istanze sono inviti aperti alla violenza. Le autorità del Kosovo sono entusiaste di sventolare il drappo rosso; le autorità serbe corrono il rischio di avventarcisi contro schiumanti di rabbia. C’è anche il timore che questa mossa abbia ricevuto il solito stimolo, questa volta dagli Stati Uniti. “Tutto ciò che Pristina sta facendo”, secondo Vučić, “lo sta ovviamente facendo con il sostegno degli Stati Uniti. Non ha diritto, in base al documento legale internazionale, di creare formazioni armate; per noi è illegale e informeremo il pubblico su ulteriori passi”.

L’affermazione non è priva di fondamento. La risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è chiara sul fatto che il garante della sicurezza nella regione è la KFOR. “Quindi”, afferma una dichiarazione [in inglese] di un portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, “qualsiasi obbligo all’abbandono da parte della KFOR delle sue responsabilità in materia di sicurezza sarebbe incoerente con tale risoluzione”. Ma il cattivo comportamento di piccole entità come il Kosovo spesso avviene su richiesta di potenze più importanti, e l’ambasciatore degli Stati Uniti in Kosovo, Philip Kosnett, ha apertamente dichiarato [in inglese] che era “naturale per il Kosovo, in qualità di paese sovrano e indipendente, avere capacità di autodifesa”.

Il Tenente Colonnello Sylejman Cakaj, che si tolse i denti da latte per combattere la Serbia come comandante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK) nel 1999, sembrava [in inglese] essersi ubriacato con una pozione carica di connotazioni politiche. “Stiamo tutti assistendo a cambiamenti geo-strategici nel mondo, verso la creazione di un ordine mondiale piuttosto nuovo. Credo che sia necessario che dopo il consolidamento della sua sovranità, il Kosovo abbia anche il suo esercito… Ciò a cui abbiamo diritto in qualità di rappresentanti del popolo, per avere il controllo del nostro paese”. È palese che dopo queste osservazioni i serbi sono rabbrividiti, e la paura qui è se Belgrado prenderà un terribile raffreddore.

La risposta del Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg è stata più di rimorso che di rabbia. “Mi dispiace che ci sia stata la decisione di avviare un cambiamento del mandato della Forza di Sicurezza del Kosovo nonostante le preoccupazioni espresse dalla NATO”. Il “livello dell’impegno della NATO con la Forza di Sicurezza del Kosovo” dovrà essere riesaminato.

Anche se la follia patriottica non dovrebbe mai essere scontata in nessun fattore nella regione, gli albanesi del Kosovo sono stati incoraggiati. Il gioco attendista sul fatto che le forze serbe verranno schierate per proteggere i serbi del Kosovo è in corso. Come ha avvertito l’ex comandante militare serbo Nebojša Jović ha avvertito [in inglese] con molta inquietudine, “Quello che [gli albanesi del Kosovo] dovrebbero sapere della nostra storia è che non c’è mai stata una “piccola guerra” in questi territori. Ogni volta che c’è stato un conflitto in Serbia, Kosovo e Metohija, si è trasformato in una guerra su una scala più ampia, e nessuno di noi qui vuole questo”.

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Articolo di Binoy Kampmark pubblicato su Counterpunch il 18 dicembre 2018
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.

[le note in questo formato sono del traduttore]

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