Dunque, la battaglia per Mosul [in russo] è iniziata. Questa notizia dovrebbe suscitare gioia: viene colpita una delle roccaforti dei “Guerrieri della Jihad” dello Stato islamico, che da più di due anni tiene nel terrore l’intera regione, che compie pulizie etniche e religiose, che distrugge chiese cristiane e monumenti sacri sufi. Tuttavia, la composizione dei liberatori di Mosul, e le inevitabili conseguenze della sua caduta non possono non suscitare una legittima preoccupazione.

Nell’estate 2014 la notizia della caduta di Mosul fu uno shock. 1500 jihadisti si impadronirono – praticamente senza combattere – della città, difesa da ben 52 mila soldati e ufficiali dell’esercito regolare iracheno. Naturalmente, la caduta di Mosul fu agevolata dall’appoggio della popolazione sunnita locale. Le politiche repressive e discriminatorie del governo sciita di Nouri al-Maliki gli avevano alienato le simpatie della comunità sunnita. Nella prima fase, alla rivolta sunnita di Mosul hanno partecipato sia gli islamisti moderati delle “Brigate della Rivoluzione del 1920”, sia gli ex baathisti, guidati da Izzat Ibrahim al-Duri, ma in seguito gli jihadisti hanno preso il sopravvento.

Ma il ruolo più importante nel disastro di Mosul l’hanno giocato la corruzione negli ambienti militari e il tradimento dei generali iracheni. Il nuovo esercito iracheno, creato dai consiglieri americani, fu considerato dai novelli generali e ufficiali come una fonte di guadagni illeciti. Tra i soldati c’erano circa 50 mila “anime morte” – soldati che esistevano solo sulla carta: gli stessi iracheni li avevano soprannominati “cosmonauti”. Le loro retribuzioni e indennità venivano intascate dagli ufficiali. Poco prima della caduta di Mosul, il governo iracheno aveva scoperto l’ammanco di 139 elicotteri da combattimento, perché i soldi per il loro acquisto erano stati semplicemente rubati [in russo]. Tra l’altro, i responsabili della vergognosa resa di Mosul, i generali Abboud Qanbar, Gaidai Ali e Mahdi al-Gazzaui, non sono mai stati puniti.

Quando Mosul cadde, nessuno si fece avanti per liberarla. Invece ora,  sul piccolo campo di battaglia nella provincia irachena di Ninive, c’è una ressa di liberatori, che sgomitano. Il ruolo principale appartiene, ovviamente, all’America. Barack Obama cerca di completare una sconfitta militare dell’ISIS prima di cedere, a gennaio, il mandato al nuovo presidente, per passare alla storia come un grande pacificatore. Questo obiettivo determinerà l’andamento della campagna militare.

L’integrità dell’Iraq come Stato e la distribuzione delle sfere d’influenza dipenderanno in gran parte da chi entrerà per primo a Mosul e stabilirà il controllo sulla città. Gli Stati Uniti cercano ora di limitare l’effettiva composizione dei partecipanti all’operazione militare, e si sono opposti alla partecipazione dei gruppi armati sciiti Hashed al-Sha’bi. Allo stesso tempo, in un briefing al Dipartimento di Stato il 3 ottobre, il vice Segretario di Stato Anthony Blinken per la prima volta ha menzionato le milizie tribali sunnite “Hashed al-Watani”, che comprendono 15 mila persone, che vengono addestrate e rifornite di armi dagli americani, e che prenderanno parte all’operazione per liberare la città.

I tentativi di minimizzare la partecipazione degli sciiti ad un’operazione militare, si spiegano con il desiderio di Washington di creare nel nord dell’Iraq – con l’occupazione, se sarà possibile, delle province nord-orientali della Siria – il quasi-Stato del Sunnistan, controllato dagli Stati Uniti, sotto la loro influenza, come il Kurdistan iracheno. Per quanto riguarda il futuro assetto della provincia di Ninive, imperniata su Mosul, dopo la sconfitta dello Stato Islamico si prendono in considerazione diverse opzioni, come rivela [in arabo] il quotidiano libanese Al-Akhbar.

Prima opzione: formazione nel nord dell’Iraq di un’autonomia sunnita, in cui il ruolo di primo piano viene assegnato ai politici sunniti, Atheel al-Nujaifi (fratello dell’ex presidente del Parlamento iracheno Osama al-Nujaifi e sindaco di Mosul in esilio) e l’ex vice-presidente Tariq al-Hashimi, destituito dal primo ministro al-Maliki a fine 2011 col falso pretesto di coinvolgimento in attività terroristiche, e che ora si trova in esilio in Turchia. La provincia sunnita nel nord dell’Iraq (con possibile aggiunta delle province di Raqqa e Deir ez-Zor in Siria) permetterà di creare qui una zona cuscinetto sunnita e interrompere l’asse Teheran – Baghdad – Damasco – Beirut, con il risultato di un forte indebolimento dell’Iran nella regione. Allo stesso tempo, con questo progetto gli USA corrono il rischio di rafforzare la Turchia, perché un tale quasi-stato inevitabilmente cadrà sotto una forte influenza turca. Tra l’altro, Atheel al-Nujaifi e Tariq al-Hashimi sono membri della direzione del Partito Islamico Iracheno, la diramazione locale dei Fratelli Musulmani.

Un’altra opzione è rappresentata dalla divisione della provincia di Ninive in otto (!) micro-regioni, secondo l’appartenenza etnica o religiosa. In particolare, sono previste regioni per cristiani (assiri e caldei), così come per curdi-yazidi e Shabak (curdi sciiti). Quattro di queste regioni saranno inevitabilmente sotto l’influenza del Kurdistan iracheno, e quindi annessi ad esso. Ecco perché i Peshmerga partecipano all’operazione di Mosul.

Le intenzioni di Ankara di stabilire una zona di influenza in Iraq trovano conferma nell’aggressione verbale senza precedenti di Erdogan al Primo Ministro iracheno Haider al-Abadi durante il vertice degli stati musulmani a Baghdad. “Chi è lei? Dov’è il suo posto? – è stato l’attacco di Erdogan contro il Primo Ministro iracheno – Si immagina forse di essere un mio collega, un uomo del mio livello?” La sfuriata di Erdogan è stata causata dalla risoluzione del Parlamento iracheno per il ritiro delle truppe turche dalla base militare Ba`shiqah nel nord dell’Iraq. E’ stata una delle poche risoluzioni votate all’unanimità da tutto il Parlamento iracheno (sciiti, sunniti, curdi e cristiani). La durezza di Erdogan è anche una conferma delle pretese neo ottomane della Turchia sulla regione di Mosul (secondo la prima stesura degli accordi Sykes-Picot del 1916, Mosul doveva far parte della Turchia, ma in seguito per decisione dei britannici fu inserita nell’Iraq a causa dei vicini giacimenti petroliferi).

In vista dell’assalto a Mosul, particolare preoccupazione desta la sorte della popolazione civile della città. All’inizio della guerra c’erano circa due milioni di persone. Considerando le epurazioni effettuate dai terroristi e l’esodo dei rifugiati, il numero di abitanti è diminuito, ma difficilmente è arrivato a dimezzarsi, perché da qualche tempo gli jihadisti hanno proibito di lasciare la città agli uomini giovani, considerandoli potenziali reclute.

Il Primo Ministro iracheno H. Al-Abadi ha detto che l’operazione contro l’ISIS a Mosul potrebbe richiedere molto tempo. Secondo gli esperti militari, gli attaccanti possono occupare il centro della città in un paio di settimane, ma un’ulteriore bonifica richiederà almeno tre mesi. Se durante la presa della città l’aviazione americana effettuerà delle incursioni, il numero delle vittime aumenterà drasticamente. Si presume che gran parte dei civili lascerà la città, ma nessuno ha predisposto per loro dei campi attrezzati. Per quanto riguarda il Kurdistan iracheno, dove già si trovano circa due milioni di rifugiati, una nuova ondata di profughi renderebbe la sua situazione ancora più difficile.

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Articolo di Aleksandr Kuznetsov pubblicato su Fondsk.ru il 19 ottobre 2016

Traduzione dal russo a cura di Elena per SakerItalia.it

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