È giunto il momento di chiamare le cose con il proprio nome. È ora di essere d’accordo con una lunga lista di leader politici israeliani, accademici e personalità pubbliche sia di sinistra che di destra, tra cui tre ex primi ministri [in inglese], un vincitore [in inglese] del Premio Israele, due ex capi del servizio di sicurezza interna israeliano Shin Bet, e uno dei principali quotidiani del paese: tutti loro hanno avvertito che lo stato ebraico sta diventando, o è già, uno stato di apartheid.
Sceglierei la quest’ultima caratterizzazione.
È interessante notare che all’interno del discorso israeliano, l’affermazione sembra essere diventata di routine, mentre rimane radioattiva in Occidente, dove energici attivisti pro-Israele scrutano i media, l’accademia e la politica, pronti a dichiarare l’antisemitismo, o il suo incitamento, ad ogni uso della parola.
Consideriamo l’indignazione e il veleno versati sull’ex presidente Jimmy Carter, sotto la cui mediazione è stato firmato l’accordo di pace tra Israele ed Egitto, quando nel 2006 ha intitolato un libro “Palestina: Peace not Apartheid”.
All’improvviso, Carter è stato trasformato, da un premio Nobel per la Pace e statista, ad un vecchio ottuso sotto l’influenza dei terroristi, almeno agli occhi dei sostenitori di Israele, inclusa una significativa parte della sua stessa coorte, i cristiani evangelici americani.
Un’anatra è un’anatra
Ma la realtà è realtà, e un’anatra è un’anatra. Come il compianto Yossi Sarid, leader storico del partito Meretz di Israele ed ex ministro dell’Istruzione, una volta affermò: “Ciò che agisce come apartheid, passa per apartheid e tormenta come l’apartheid, non è un’anatra – è l’apartheid”.
Lo scorso giugno, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak ha ribadito la sua posizione da anni: “Se continuiamo a controllare l’intera area dal Mediterraneo alla Giordania, dove vivono circa 13 milioni di persone – otto milioni di israeliani, cinque milioni di palestinesi… se solo un’entità regnasse su quest’intera area, chiamata Israele, diventerebbe inevitabilmente – questa è la parola chiave, inevitabilmente – o non ebraica o non democratica ”. Il paese è, ha ripetuto, “su una china scivolosa” che sfocia nell’apartheid.
La linea di demarcazione tra eminenti israeliani che usano il termine nel qui e ora, piuttosto che come un avvertimento di ciò che sta arrivando, sembra essere la continua esistenza del “processo di pace”, con la sua promessa di uno Stato palestinese, e l’autogoverno.
E quando ho cominciato a pubblicare per CBC News Gerusalemme, alla fine degli anni ’90, sembrava davvero una possibilità, anche se improbabile.

La foto, presa il 17 gennaio 2017, mostra i nuovi appartamenti in costruzione nella colonia di Har Homa, a Gerusalemme Est e, sullo sfondo, una vista del vicino insediamento arabo di Umm Tuba (Thomas Coex/AFP/Getty Images)
Da allora, il processo di pace, da sempre semiincosciente, è completamente collassato. L’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania è continuata e, dopo l’elezione di Donald Trump, la colonizzazione è cresciuta con un entusiasmo rinvigorito.
La loro esistenza è attualmente celebrata in una serie di apparizioni del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
“Siamo qui per restare, per sempre”, ha dichiarato [in inglese] due mesi fa nella colonia di Barkan, per commemorare il 50° anniversario dell’occupazione israeliana della Cisgiordania.
“Non ci sarà più lo sradicamento degli insediamenti nella terra di Israele”. (La “Terra di Israele”, in contrapposizione allo Stato di Israele, è un termine usato dal diritto israeliano per descrivere tutto il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo, e talvolta anche oltre).
Ayelet Shaked e Naftali Bennett, rispettivamente i ministri della Giustizia e dell’Istruzione israeliani, hanno detto [in inglese] che i palestinesi devono capire che non avranno mai uno Stato. Il Ministro della Difesa Avigdor Liberman, un colono, ha affermato [in inglese] che non c’è “nessuna speranza” per uno Stato palestinese concordato di comune accordo, ma ha messo in guardia Naftali Bennett contro la promozione dell’annessione definitiva:
“Quello che Bennett e il suo Partito del Focolare Ebraico [‘Jewish Home’, in inglese] stanno proponendo è un classico stato bi-nazionale”, ha detto [in inglese] Liberman due anni fa. “Devono decidere se stanno parlando di uno stato bi-nazionale tra il fiume Giordano e il Mediterraneo… o se stanno parlando di uno stato di apartheid”.
Sottoproletariato palestinese
La logica di Liberman sembra essere che non è veramente apartheid finché i palestinesi sono semplicemente occupati e governati da un diverso insieme di leggi, con molti meno diritti rispetto agli israeliani (in opposizione al negare loro uno Stato ma, in una qualche versione estesa di Israele, dare loro un voto, cosa che la destra israeliana considera un suicidio nazionale).
Ma l’annessione a questo punto equivarrebbe semplicemente ad una messinscena.
Nell’ultimo decennio, la dottrina del “Muro di ferro” di Ze’ev Jabotinsky ha dato origine ad un muro reale, a volte di ferro, che correva grosso modo lungo i confini del 1967 della Cisgiordania e di Gaza. Le strade principali da Gerusalemme nord a Ramallah e Nablus e sud a Betlemme e Hebron sono ora bloccate da gigantesche barriere militari fortificate. I circa [in inglese] tre quarti di milione di coloni ebrei in Cisgiordania e Gerusalemme Est hanno completa libertà di movimento e una rete stradale propria [in inglese], di fatto vietata al sottoproletariato palestinese privo di diritti.
I coloni sospettati di crimini si vedono riconosciuti i pieni diritti nei tribunali israeliani, i palestinesi subiscono i tribunali militari, l’indefinita detenzione senza accusa [in inglese] (“detenzione amministrativa”) e la punizione collettiva. I coloni hanno il diritto di portare armi e di usarle per legittima difesa, i palestinesi no. I coloni hanno diritti di proprietà, i palestinesi hanno rivendicazioni di proprietà. E così via.
Netanyahu inquadra il tutto come una questione di sopravvivenza nazionale, avvertendo che qualsiasi terra concessa sarà immediatamente occupata da terroristi fondamentalisti decisi a distruggere lo Stato di Israele, con le sue armi nucleari, carri armati, caccia, sistemi di difesa missilistici stratificati e oltre 600.000 truppe, fra quelle attive e quelle di riserva.
La sua definizione di terrorismo è sfumata; qualche anno fa, ad un evento per commemorare il 60° anniversario dell’attentato dell’Hotel King David da parte dei combattenti Irgun [in inglese], considerato un atto terroristico dal governo britannico fino ad oggi, Netanyahu ha caratterizzato [in inglese] i responsabili [in inglese] come legittimi combattenti militari, e ha avvertito l’indignato governo britannico di badare di più al suo linguaggio.

Netanyahu inquadra l’espansione delle colonie come una questione di sopravvivenza nazionale (Sebastian ScheinerAssociated Press)
Ma poi, una visione del mondo elastica è apparentemente necessaria per mantenere lo status quo; quando il partito Fatah di Mahmoud Abbas ha firmato di recente una riconciliazione formale [in inglese] con i “terroristi” di Hamas, quelli che governano Gaza, sia Israele che gli Stati Uniti hanno obiettato, dicendo che una tale unione mette di certo in pericolo il processo di pace. Il fatto che i terroristi di oggi tendono a diventare gli statisti di domani (gli attentatori di Irgun si sono poi uniti al nascente governo di Israele, e l’ex capo dell’Irgun Menachem Begin è diventato Primo Ministro) è apparentemente irrilevante in questo contesto.
In ogni caso, la china scivolosa di Ehud Barak è alle spalle. L’anatra di Yossi Sarid è arrivata. Accettiamolo, facciamo finta che sia tutto a posto e andiamo avanti.
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Articolo di Neil Macdonald apparso su CBC News il 24 ottobre 2017
Traduzione in italiano di Cinzia Palmacci per SakerItalia
[le note in questo formato sono del traduttore]
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