Sembrerebbe logico aspettarsi che le guerre nell’era del Coronavirus diventino secondarie rispetto all’ossessione globale di un’orribile pandemia che si rifiuta di estinguersi. Invece, in molte parti del Medio Oriente si continua a combattere.
Il regime saudita (appoggiato dall’intera coalizione occidentale) prosegue la sua brutale guerra contro lo Yemen, mentre la guerra civile libica (innescata dalla “liberazione” del paese ad opera della NATO del Presidente Barack Obama) non si è placata, anche se le fazioni in lotta hanno assicurato al popolo libico che le loro armi sono state sanificate [in inglese].
In Siria, Israele continua a compiere attacchi mirati in tutto il paese, mentre la guerra tra il regime e i gruppi armati di opposizione continua intorno ad Idlib. Gli Stati Uniti e la Russia non hanno diminuito il loro intervento in Siria, e gli Stati Uniti sembrano intenti a rafforzare la loro presenza militare in Iraq.
Gli Stati Uniti motivano la loro presenza con la lotta all’ISIS, ma il vero scopo è quello di combattere l’influenza iraniana in Iraq, e non solo.

Proteste a Sanaa, capitale dello Yemen, contro l’intervento a guida saudita, marzo 2016. (Fahd Sadi, CC BY 3.0, Wikimedia Commons)]
In Palestina, Israele prosegue con il suo ormai tradizionale modello di brutale occupazione che consiste, tra le altre cose, nel demolire abitazioni, rapire, sparare, bombardare e compiere incursioni militari in qualsiasi momento.
Ma il fatto che il coronavirus non abbia estinto le fiamme della guerra non significa che la regione sia destinata ad una intensificazione dei conflitti armati. Mentre il conflitto infuria e gli attori esterni non accennano a cessare il loro interventismo, la probabilità di una guerra regionale in pieno stile rimane, per varie ragioni, piuttosto bassa. Le parti più verosimilmente interessate da una possibile guerra sono riluttanti ad inasprire e ad espandere conflitti in atto, anche se è possibile che, a causa di errori di giudizio da parte americana o israeliana si inneschi un conflitto su larga scala.
Sembra chiaro che Israele e gli Stati Uniti si sentono piuttosto sicuri della loro capacità di intervenire militarmente in tutta la regione senza temere vendette (anche se si sono verificati attacchi all’ambasciata statunitense in Iraq). Anche dopo che il Parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione delle truppe americane dall’Iraq, gli Stati Uniti si rifiutano di andarsene insistendo sulla necessità di combattere l’ISIS. Il Segretario di Stato Mike Pompeo ha semplicemente ignorato [in inglese] il voto iracheno.
Il pretesto della lotta all’ISIS
Il pretesto della lotta all’ISIS ha rimpiazzato quello della lotta al comunismo. Gli Stati Uniti hanno bisogno di elaborare una minaccia permanente così da giustificare la loro presenza militare e l’interventismo in tutto per il mondo. (In America Latina la “lotta alla droga” è stata utilizzata dagli Stati Uniti come pretesto per compiere operazioni militari e d’intelligence).

Marines americani stanziati in Iraq per garantire la sicurezza dell’ambasciata statunitense. 31 dicembre 2019. (U.S. Marine Corps/Robert G. Gavaldon)]
Sulla stessa falsariga, Israele continua gli attacchi alla Siria senza che la stampa americana vi dedichi molta attenzione. Organi d’informazione occidentali continuano a ripetere da qualche anno che Israele si è tenuto “ai margini” del conflitto siriano, anche in presenza di prove sempre più evidenti che dimostrano [in inglese] la fornitura di armi da parte di Israele ad alcune fazioni ribelli.
Dal 2018 Israele ha compiuto [in inglese] più di 200 attacchi alla Siria. Ha inoltre beneficiato dell’incondizionata indulgenza dell’amministrazione Trump. Tuttavia, è poco probabile che entri in guerra, specialmente durante quello che rimane del primo mandato di Trump. Israele ha bombardato in Siria obiettivi iraniani, siriani e di Hezbollah, ma non è detto che si spinga fino a lanciare una guerra in pieno stile.
Deterrenti all’aggressione israeliana
Per primo, il premier israeliano guida una precaria coalizione formata da opposte identità politiche. Una guerra potrebbe essere vista dai suoi alleati come il tentativo di distogliere l’attenzione dai suoi problemi legali.
Inoltre, dalla guerra [in inglese] in Libano del luglio 2006 fino ai successivi conflitti a Gaza, Israele ha perso la certezza di potere iniziare e vincere rapidamente un conflitto armato. Quei tempi sono ormai andati. È significativo che, mentre una volta Israele riusciva a prevalere rapidamente sugli eserciti arabi, la stessa strategia necessita adesso di essere riconsiderata nel fronteggiare bande armate di volontari.

Soldati israeliani della brigata Nahal mentre lasciano il Libano. 1 agosto 2006 .(IDF, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons)]
Terzo punto: dato che Israele ha perso molta della propria arrogante fiducia in sé dal punto di vista militare, ritiene a ragione che i suoi nemici palestinesi e libanesi siano in grado di battersi ancora meglio che nei conflitti precedenti, utilizzando nuovi metodi ed astuzie contro il proprio esercito.
Anche se Israele intrattiene relazioni insolitamente buone con diversi tiranni arabi (in particolare nel Golfo e in Egitto), un eventuale conflitto con qualunque esercito o milizia arabi forzerebbe quegli stessi tiranni a prendere le distanze da Israele.
In quarto luogo, la guerra (specialmente quelle di una certa durata, come quella di 33 giorni contro il Libano nel 2006) è costosa, e nell’era del coronavirus i bilanci sia di Israele che degli Stati Uniti sono ristretti. La pandemia potrebbe limitare decisamente la tradizionale prodigalità americana, anche se Obama aveva comunque garantito ad Israele la sostanziosa somma di 38 miliardi di dollari in 10 anni.
Meno vincoli per sauditi ed emirati
I regimi saudita e degli EAU sembrano soggetti a minori vincoli rispetto agli altri attori regionali. Gli EAU continuano ad essere pesantemente coinvolti nella guerra libica, così come la Turchia. Ultimamente gli EAU hanno reclutato il tiranno egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il quale, con l’autorizzazione del suo parlamento fantoccio, ha minacciato un intervento militare in Libia.
Gli EAU vedono il conflitto libico come una guerra internazionale contro la Fratellanza Musulmana e i suoi sostenitori regionali, cioè la Turchia ed il Qatar.
Il regime saudita non ha mantenuto la promessa di ridurre l’intensità del conflitto in Yemen. E i governi occidentali che avevano promesso dure sanzioni contro il governo saudita per l’assassinio dell’opinionista del Washington Post Jamal Khashoggi, sembrano essersi dimenticati dei crimini di Muhammad bin Salman.
MbS, come è generalmente conosciuto, non può ritirarsi dalla guerra in Yemen perché (che egli ha definito la “tempesta di risolutezza”) si tratta di una sua creatura dalla quale si aspettava una rapida vittoria che lo avrebbe elevato al rango di glorioso condottiero arabo.
I vincoli degli Stati Uniti

Donald Trump visita la fabbrica Ford Rawsonville Components in Ypsilanti, Michigan, che produce ventilatori (White House, Wikimedia Commons)]
La probabilità che gli Stati Uniti vadano in guerra è ancora più bassa di quella di Israele. Trump ha largamente mantenuto la promessa di non iniziare nuove guerre nella regione, e i suoi tentativi di ritiro delle truppe dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iraq, hanno reso evidente il fatto che la dirigenza militare e quella di politica estera pone dei parametri di condotta che nemmeno i presidenti possono violare se si vuole preservare ed espandere l’Impero Americano.
Sicuramente, gli Stati Uniti non hanno sospeso gli interventi militari né le operazioni palesi e segrete contro i nemici propri e di Israele. Ma si tratta di un anno di elezioni e il peso del coronavirus sui bilanci rende impensabile una guerra. Gli Stati Uniti non si sono sganciati dalle varie guerre iniziate dalle precedenti amministrazioni democratiche e repubblicane, dall’Afghanistan alla Libia. La possibilità che se ne inizi un’altra alienerebbe gli elettori da entrambi i partiti.
L’Iran, d’altra parte, sta patendo delle sanzioni economiche particolarmente dure, aggravate dal coronavirus e dal rifiuto del governo Stati Uniti di rilassare alcune delle crudeli misure, così da consentirgli di affrontare l’emergenza sanitaria.
All’Iran manca una guida alternativa
L’élite politica iraniana è rancorosamente unita dietro la guida del presidente Hassan Rouhani e del Ministro degli Esteri Mohammad-Javad Zarif, ma solo perché non ci sono alternative.

Dimostrazioni in Iran a seguito dell’assassinio del Generale Qasem Soleimani (Fars News Agency, CC BY 4.0, Wikimedia Commons)]
Il duumvirato Rouhani-Zarif è stato eletto sulla base della promessa di un’attenuazione delle sanzioni, una possibilità che è stata vanificata dalla decisione di Trump di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardante l’accordo sul nucleare iraniano. La debolezza dell’Iran ha incrementato l’aggressività e le provocazioni degli americani e degli israeliani nei confronti dell’Iran stesso e dei suoi alleati. È questo un fattore che potrebbe alla fine determinare una guerra regionale.
Israele ha il semaforo verde degli Stati Uniti per attaccare in Siria ogni obiettivo relativo all’Iran ed ai suoi alleati, e per compiere azioni di sabotaggio e terrorismo all’interno del territorio iraniano. Israele si basa sulla premessa che l’Iran eviterà un confronto militare ad ogni costo, non importa quante provocazioni sia costretta a subire.
Lo stesso calcolo lo hanno fatto gli Stati Uniti quando hanno assassinato Qasem Soleimani, uno dei comandati iraniani di vertice, ed Abu Mahdi al-Muhandis a Baghdad, leader chiave delle forze Hashd in Iraq. Tuttavia, c’è una soglia, anche se non meglio definita, superata la quale l’Iran non può tollerare ulteriori provocazioni americane ed israeliane, a costo della sopravvivenza del regime e della legittimità politica dell’asse regionale a sua guida. Saranno l’Ayatollah Ali Khamenei insieme con Hasan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ed i comandati delle Guardie della Rivoluzione Iraniana a decidere qual è il limite invalicabile. Le provocazioni israeliane sono aumentate perché ritengono scontato che l’Iran non risponderà, a prescindere. Ma più le provocazioni vanno avanti, più queste diventano imbarazzanti per il regime, di fronte sia al popolo iraniano che all’intera regione.
In buona sintesi, nel Medio Oriente non sono presenti prospettive di pace, e l’intransigenza israeliana rende ancora più difficile per i suoi amici tiranni arabi il raggiungimento di qualunque accordo in tal senso. Tuttavia, mentre i conflitti e le guerre regionali continueranno, sembra piuttosto remota la possibilità di una guerra in pieno stile che coinvolga tutto il Medio Oriente, anche a dispetto dell’accumularsi delle provocazioni israeliane, ignorate in Occidente sia della stampa che dai governi.
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Articolo di As`ad AbuKhalil pubblicato su Consortium News il 23 luglio 2020
Traduzione in italiano di DS per SakerItalia
[le note in questo formato sono del traduttore]
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