Nel giugno del 1967, Israele ha costretto 400.000 palestinesi a lasciare i propri territori in seguito alla Guerra dei Sei Giorni. La Naksa [la ricaduta] rappresenta la principale ondata di espulsioni di palestinesi dopo la Nakba [la catastrofe] del 1948, e dette origine alla conquista da parte di Israele della Striscia di Gaza, di Gerusalemme e della West Bank. Decenni  dopo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ritiene ancora di avere svolto correttamente il proprio dovere attraverso la Risoluzione 242 [in inglese], che considera il ritiro di Israele dai Territori Occupati un “principio”, piuttosto che un obbligo.

La Naksa è sinonimo dell’occupazione militare di Israele, la quale è un termine che ha eclissato il colonialismo e che protegge Israele dalla responsabilità. La retorica politica non mette Israele di fronte alla decolonizzazione, piuttosto si concentra sull’occupazione militare e conseguentemente sposta l’attenzione lontano dall’espansione coloniale in corso che, tuttora, forza i palestinesi a lasciare le proprie terre.

All’interno della comunità internazionale, e specialmente in relazione al compromesso dei Due Stati, la diplomazia riguardo all’occupazione militare di Israele, ha dato prova di essere una sottile maschera per impedire il riconoscimento del ruolo dell’ONU nella creazione e nel mantenimento di Israele. Accettare Israele come stato ha fatto segnare la prima normalizzazione collettiva del colonialismo sionista in Palestina. La sovranità, costruita sulla pulizia etnica del popolo palestinese nella sua propria terra, è stata attribuita alla entità coloniale in Palestina. Con i palestinesi considerati un’emergenza umanitaria già dal 1948, e con questa classificazione ulteriormente rinforzatesi nel 1967, la negazione da parte della comunità internazionale del progetto coloniale sionista non solo ha normalizzato il colonialismo, ma ha portato all’occupazione militare della Palestina.

Questo è successo in seguito al modo in cui l’ONU racconta le violazioni di Israele alla legge internazionale, isolandole dalle precedenti violenze scatenate dai paramilitari sionisti durante la Nakba. Dal 1967 in poi, l’occupazione militare ha garantito a Israele la possibilità di legiferare violazioni per punire collettivamente i palestinesi e per aumentare la probabilità che se ne andassero, appropriandosi quindi di più territori per la propria espansione coloniale.

Descrivere Israele solo come uno stato esercitante un’occupazione militare ha poco a che vedere con l’identità coloniale israeliana. Allo stesso modo, chiedere la fine dell’occupazione militare israeliana della Palestina ignora la realtà coloniale che sostiene una legislazione che priva i palestinesi dei loro spostamenti, della loro espressione politica, della loro vita, delle loro necessita basilari e della loro libertà. L’occupazione militare è uno strumento per l’Israele coloniale, non definisce Israele e non dovrebbe essere sfruttata dalla comunità internazionale come mezzo atto a privare ulteriormente i palestinesi dei propri sforzi anti-colonialisti, come è loro diritto politico avere.

Per i palestinesi, il 1967 è una continuazione della Nakba del 1948, come lo è l’occupazione militare della Palestina. È la comunità internazionale che ha giocato sull’equivalenza tra colonialismo e occupazione, rendendoli sinonimi per facilitare le diplomazia dei Due Stati. Inoltre, gli Stati Uniti hanno consolidato i propri legami con Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni, e sotto la presidenza di Donald Trump si è avuto il cosiddetto “accordo del secolo”, che si basa sul paradigma dei Due Stati per spianare la strada all’annessione da parte di Israele dei territori occupati della West Bank.

Nonostante la guerra del 1967 abbia rinforzato il dominio coloniale sulla Palestina, l’ONU è di parte sull’occupazione militare, poiché fornisce un’alternativa, un punto di distacco, pur se incompleto, dall’attuale inquadratura della narrativa fatta da Israele e dalla sua diffusione. Le violazioni della legge internazionale tuttora in corso verso i palestinesi, inclusa l’espansione delle colonie, fanno ora parte della narrativa portata avanti da Israele sulla propria sicurezza, che l’ONU ha regolarmente difeso, anche se alle volte fa deboli proclami condannando le trasgressioni.

L’iniziale unità politica palestinese e l’impegno alla lotta anti-coloniale successivi al 1967 si sono disgregati, non solo per le differenza tra le fazioni politiche palestinesi, ma anche in seguito all’insistenza delle Nazioni Unite sui negoziati, che hanno portato a condannare l’occupazione militare normalizzando il colonialismo sionista.

Per Israele il 1948 è stato l’inizio, il 1967 ha segnato il cammino verso un dominio certo su tutte le terre di Palestina, facilitato dal seguente tradimento, decenni dopo, della causa palestinese a livello regionale e internazionale.

Il ricordo del 1967 deve tenere in considerazione il precedente processo coloniale. L’attuale frangente del popolo palestinese, in prossimità dell’annessione, porta con sé la complicità della comunità internazionale nell’annacquare il colonialismo con la più preferibile terminologia dell’occupazione militare. Chiedere la fine dell’occupazione militare non sradicherà il colonialismo. Al contrario, l’ONU sta proteggendo il processo coloniale israeliano normalizzando i passi che portano al dislocamento del popolo e all’appropriazione del territorio, nel nome delle preoccupazioni per la sicurezza di Israele.

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 Articolo di Ramona Wadi pubblicato su Strategic Culture Foundation il 15 giugno 2020
Traduzione in italiano di Eros Zagaglia per SakerItalia

[le note in questo formato sono del traduttore]

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