Perché Israele ha ucciso molti manifestanti disarmati a Gaza e ne ha feriti oltre 2.000 venerdì 30 marzo e nei giorni successivi, quando chiaramente non rappresentavano una minaccia per i soldati israeliani?
Centinaia di soldati israeliani, molti dei quali cecchini, sono stati schierati nella mortale zona cuscinetto creata dall’esercito israeliano tra Gaza assediata e Israele, mentre decine di migliaia di famiglie palestinesi tenevano raduni di massa al confine.
“Ieri abbiamo visto 30.000 persone”, ha twittato l’esercito israeliano il 31 marzo. “Siamo arrivati preparati e con rinforzi precisi. Nulla è stato effettuato senza controllo; tutto è stato preciso e misurato, e sappiamo dove ha colpito ogni proiettile”.
Il tweet, intercettato dal gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, è stato presto cancellato. L’esercito israeliano deve aver capito che uccidere bambini e vantarsene sui social media è troppo crudele anche per loro.
La mobilitazione popolare palestinese riguarda profondamente Israele, in parte perché è un incubo in termini di pubbliche relazioni. Uccidendo e ferendo questo numero di palestinesi, Israele aveva sperato che le masse si ritirassero, le proteste si placassero e, alla fine, cessassero. Questo non è avvenuto, ovviamente.
Ma c’è di più nella paura di Israele. Il potere del popolo palestinese, quando è unito al di là delle alleanze di fazione, è immenso. Rende completamente inutili le tattiche politiche e militari di Israele e pone Tel Aviv totalmente sulla difensiva.
Israele ha ucciso quei palestinesi proprio per evitare questo scenario da incubo. Poiché l’omicidio a sangue freddo di persone innocenti non è passato inosservato, è importante approfondire il contesto sociale e politico che ha portato decine di migliaia di palestinesi ad accamparsi e radunarsi alla frontiera.
Gaza è stata soffocata. Il blocco decennale di Israele, combinato con l’abbandono degli arabi e una prolungata faida tra fazioni palestinesi, è servito a spingere i palestinesi sull’orlo della fame e della disperazione politica. Non si poteva andare avanti così.
L’atto di mobilitazione di massa della settimana scorsa non si è limitato a sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dal diritto internazionale), né a commemorare il Giorno della Terra [lo Yom al-Ard], un evento che ha unito tutti i palestinesi dopo le sanguinose proteste del 1976. La protesta riguardava un richiamo al programma, trascendendo le lotte intestine politiche e ridando voce alle persone.
Ci sono molte somiglianze storiche tra questo atto di mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada (o “rivolta”) del 1987. A quel tempo, i governi arabi della regione avevano relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982, essendo già stata esiliata in Libano, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) insieme a migliaia di combattenti palestinesi, furono cacciati ancora più lontano, fino in Tunisia, Algeria, Yemen e in altri paesi. Questo isolamento geografico ha fatto sì che la leadership tradizionale della Palestina rimanesse irrilevante rispetto a ciò che stava accadendo sul terreno.
In quel momento di assoluta disperazione, qualcosa si ruppe. Nel dicembre 1987, le persone (soprattutto bambini e adolescenti) scesero in piazza, in una mobilitazione in gran parte non violenta durata più di sei anni, culminata con la firma degli Accordi di Oslo nel 1993.
Oggi, la leadership palestinese si trova in uno stato simile di crescente irrilevanza. Isolata, di nuovo, dalla geografia (Fatah che detiene la Cisgiordania, Hamas Gaza), ma anche dalla divisione ideologica.
L’Autorità palestinese (AP) a Ramallah sta rapidamente perdendo la sua credibilità tra i palestinesi, grazie alle accuse di corruzione di lunga data, con richieste di dimissioni del leader dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (il suo mandato è tecnicamente scaduto nel 2009). Lo scorso dicembre, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha aggravato l’isolamento dell’Autorità Palestinese, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, in spregio al diritto internazionale e al consenso delle Nazioni Unite. Molti vedono questo atto come l’inizio di un progetto per emarginare ulteriormente la PA.
Hamas – originariamente un movimento popolare nato nei campi profughi di Gaza durante la Prima Intifada – è ora indebolito dall’isolamento politico.
Di recente, sembrava ci fosse un raggio di speranza. Dopo diverse iniziative fallite verso la riconciliazione con Fatah, un accordo è stato firmato tra entrambi i partiti al Cairo, lo scorso ottobre.
Ahimè, come i precedenti tentativi, ha cominciato a vacillare quasi immediatamente. Il primo ostacolo si è verificato il 13 marzo, quando il convoglio del primo ministro dell’AP, Rami Hamdallah, è stato l’obiettivo di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah era diretto verso Gaza attraverso un passaggio di confine israeliano. L’AP ha subito accusato Hamas per l’attacco, cosa che quest’ultimo ha negato con veemenza. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.
Ma poi, la scorsa settimana è successo. Mentre migliaia di palestinesi camminavano pacificamente nella letale “zona cuscinetto” lungo il confine di Gaza, nel mirino dei cecchini israeliani, e la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini ordinari, mostrarsi come esseri umani ordinari, persone che, fino ad ora, sono rimaste invisibili dietro i politici.
Gli abitanti di Gaza hanno montato tende, socializzato e sventolato bandiere palestinesi – non gli stendardi delle varie fazioni. Le famiglie si sono riunite, i bambini hanno giocato, c’è stato persino uno spettacolo di clown. È stato un raro momento di unità.
La risposta dell’esercito israeliano, che ha usato le più recenti tecnologie nello sparo di proiettili, era prevedibile. Uccidendo 15 manifestanti disarmati e ferendo 773 persone solo nel primo giorno, l’obiettivo era disciplinare i palestinesi.
Le condanne a questo massacro sono arrivate da personalità rispettate in tutto il mondo, come Papa Francesco e Human Rights Watch. Questo barlume di attenzione potrebbe aver fornito ai palestinesi l’opportunità di elevare l’ingiustizia dell’assedio all’agenda politica globale, ma purtroppo ciò è di poca consolazione per le famiglie dei morti.
Consapevole dei riflettori internazionali, Fatah ha subito preso atto di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il Vicepresidente, Mahmoud Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per sostenere l’Autorità Palestinese “di fronte a pressioni e cospirazioni inventate contro la nostra causa”, riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento di Trump nei confronti dell’AP di Fatah.
Ma questa non è la realtà. Si tratta di persone che trovano espressione al di fuori dei confini degli interessi delle fazioni; una nuova strategia. Questa volta, il mondo dovrà ascoltare.
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Articolo di Ramzy Baroud pubblicato l’11 aprile 2018 su Counterpunch.
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.
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