Una combinazione di errori (per ignoranza o intenzionale) e alcune rilevanti omissioni di fatti hanno lasciato il pubblico americano senza informazioni sul perché i Palestinesi siano andati alle Nazioni Unite, e cosa stiano cercando di ottenere.

Il più grande errore ripetuto dai media in centinaia di titoli e articoli è che i Palestinesi stiano cercando di essere riconosciuti come Stato alle Nazioni Unite. Ma la Palestina è già di fatto legalmente uno Stato sovrano, e sta cercando di essere ammessa alle Nazioni Unite, non di essere riconosciuta come tale. [Alla fine ha optato per essere Stato osservatore dopo che gli Stati Uniti ne hanno bloccato l’adesione].

Le Nazioni Unite non concedono o non riconoscono lo status di nazione. Solo gli Stati possono bilateralmente riconoscere gli altri Stati. L’ONU può solo conferire o meno lo status di membro osservatore a Stati già esistenti. La Carta dell’ONU è chiara [in inglese]: l’articolo 4 dice che solo degli Stati esistenti possono richiedere di aderire alle Nazioni Unite.

Il 23 settembre il Segretario Generale Ban Ki-moon ha accettato la domanda di adesione all’ONU presentata da Mahamud Abbas, Presidente dell’OLP e dell’Autorità Nazionale palestinese. Ban Ki-moon ha inviato la domanda al Consiglio di Sicurezza, che la scorsa settimana ha cominciato a prenderla in considerazione.

Il Presidente palestinese Mahmoud Abbas

L’atto stesso del Segretario Generale di accettare la domanda di adesione è un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite del fatto che la Palestina sia già uno Stato, dato che solo gli Stati possono fare domanda.

La Convenzione di Montevideo del 1933 stabilisce [in inglese] i requisiti per essere uno Stato: una popolazione che vive in un territorio definito, con un governo che può stabilire reazioni con altri governi. La Palestina li ha tutti e tre.

Anche se non sono definiti i confini con Israele, altri Paesi con dispute sui confini (come Pakistan e India) sono stati ammessi come membri dell’ONU. Nel 1950 anche Trygve Lie, il primo Segretario Generale delle Nazioni Unite, scrisse in una nota che gli Stati non hanno bisogno di essere riconosciuti universalmente per fare domanda.

La Palestina ha dichiarato la sua indipendenza il 15 novembre 1988, un fatto che non si ritrova da nessuna parte nelle notizie mainstream della scorsa settimana. Quel giorno un Palestinese uscì dalla moschea di Al Asqa a Al Quds/Gerusalemme, e lesse la dichiarazione ad alta voce, proprio come nel cortile del Congresso qualcuno lesse la Dichiarazione di Indipendenza americana a una folla di Filadelfia il 4 luglio 1776.

Un centinaio di nazioni riconobbero lo Stato indipendente della Palestina subito dopo. Da allora, altre 30 nazioni hanno riconosciuto la Palestina, alcune delle quali hanno aperto le ambasciate palestinesi nelle loro capitali. Anche questo fatto fondamentale non è stato riportato dai media americani. Per i Palestinesi e per quei Paesi che li riconoscono, le truppe israeliane stanno occupando una nazione sovrana.

E’ stata la stessa cosa di quando il Marocco, poi la Francia e altre nazioni riconobbero l’indipendenza degli Stati Uniti, anni prima che fosse vinta la guerra contro la Gran Bretagna. Per gli Americani e quelle nazioni che riconoscevano l’America, le truppe britanniche divennero forze di occupazione, non un esercito che difende il territorio inglese.

Il problema degli Americani, allora, e per i Palestinesi, adesso, è che la nazione occupante e la più grande potenza mondiale non sono tra quei 130 che li hanno riconosciuti.

Se nel 1777 ci fossero state le Nazioni Unite, gli Americani avrebbero potuto fare domanda di adesione. E se la Gran Bretagna avesse avuto il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza allora come ora, avrebbe bloccato quell’adesione.

Oggi, né la potenza occupante (Israele) né la più grande potenza mondiale (Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Così, gli Stati Uniti hanno promesso di porre il veto al Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione per l’adesione della Palestina.

Gli Stati Uniti avevano fatto un’accanita pressione proprio per impedire alla Palestina di arrivare alle Nazioni Unite, minacciando di far tagliare tutti gli aiuti dal Congresso. Avendo fallito, Washington sta ora provando a ritardare il più possibile, mentre fa pressione sui vari membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza affinché si astengano o votino contro.

I Palestinesi, però, lo sapevano fin dall’inizio che il processo dell’ONU sarebbe durato settimane, e finora non sono arretrati di un centimetro.

Yasser Arafat dichiara la Palestina Stato indipendente, Algeri, 15 novembre 1988. (imemc.org)

L’adesione alle Nazioni Unite richiede una raccomandazione del Consiglio di Sicurezza a 15 membri, con nove voti a favore e nessun veto. Se passa la raccomandazione, l’Assemblea Generale con 193 seggi deve dare la sua approvazione con una maggioranza di due terzi. Otto o meno voti a favore in Consiglio di Sicurezza possono uccidere la risoluzione di adesione, evitando agli Stati Uniti di porre il veto, cosa che gli costerebbe cara nelle strade arabe.

Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa e Libano sono tra i membri del Consiglio di Sicurezza che hanno formalmente riconosciuto la Palestina, e sono risoluti a votare a favore. Gli Stati Uniti non si preoccupano di loro. Ma anche Nigeria, Bosnia-Erzegovina, Colombia e Gabon hanno riconosciuto la Palestina, e sono soggetti ad una forte pressione americana (francese, nel caso del Gabon) per almeno astenersi.

Per i Palestinesi non raggiungere gli otto voti sarebbe imbarazzante, ma l’iter del Consiglio di Sicurezza è solo il primo passo. Dopo una sconfitta sicura al Consiglio di Sicurezza (dato che gli Stati Uniti hanno giurato di utilizzare il diritto di veto, se necessario), rimangono due opzioni nell’Assemblea Generale.

Durante il suo volo di rientro da New York, il Presidente Abbas ha dichiarato ai giornalisti che i Palestinesi sono disposti ad aspettare due settimane affinché agisca il Consiglio di Sicurezza, prima di fare il passo successivo per l’adesione. Quel passo è provare ad aggirare in sede dell’Assemblea Generale il veto americano o meno di nove voti nel Consiglio di Sicurezza, applicando una risoluzione dell’epoca della Guerra fredda nota come “Uniting for Peace[risoluzione 377 (V)].

Fu introdotta dagli Stati Uniti nel 1950 per aggirare i ripetuti veti sovietici sulla Guerra di Corea. Francis Boyle, un consulente legale di Abbas, mi ha detto che ha consigliato al Presidente palestinese di fare questo passo.

I Palestinesi devono, però, convincere due terzi dei membri votanti dell’Assemblea che l’adesione della Palestina sarebbe una risposta “ad una minaccia alla pace, a una violazione della pace o a un atto di aggressione” da parte di Israele.

Stati Uniti e Israele combatteranno per tenere tutto questo fuori dall’agenda dell’Assemblea Generale. Ma Boyle, che ha tenuto a precisare che non parla a nome dei Palestinesi, mi ha detto che pensa che i Palestinesi abbiano i modi per superare il problema.

Tuttavia, sembra che ci sia una spaccatura nella leadership dell’OLP sul ricorso allo Unity for Peace. Hanan Ashrawi, un membro del comitato esecutivo dell’OLP, afferma che è un’opzione ancora percorribile; l’osservatore della Palestina presso l’ONU, Riyad Mansour, ritiene invece che qualsiasi richiesta di adesione debba prima passare legalmente al Consiglio di Sicurezza e che non ci sia alcun escamotage.

La posizione di Abbas non è chiara. Sarà interessante vedere se i Palestinesi proveranno ad utilizzare lo Uniting for Peace e cosa succederà se lo faranno.

Se decideranno di non utilizzarlo o se falliranno, la loro terza opzione è tentare di diventare uno Stato osservatore non-membro, cosa per cui è richiesta una maggioranza semplice di 97 voti nell’Assemblea Generale, che i Palestinesi evidentemente hanno. [Non hanno utilizzato lo Uniting for Peace e hanno invece ottenuto lo status di osservatore].

Diventare uno Stato osservatore sarebbe più che simbolico. Potrebbe rimodellare l’equilibrio del potere tra Israele e Palestina. Come Stato osservatore, la Palestina potrebbe partecipare ai dibattiti dell’Assemblea ma non potrebbe votare, sostenere risoluzioni e presentare candidati per i comitati dell’Assemblea.

Ma, come hanno dichiarato i funzionari, la cosa più importante è che la Palestina avrebbe il diritto di aderire ai trattati e partecipare alle agenzie speciali dell’ONU (come l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile, ICAO), alla Convenzione sul diritto del mare, al Trattato di non proliferazione nucleare e al Tribunale Penale Internazionale.

La Svizzera è entrata nell’ICAO nel 1947, quando era ancora uno Stato osservatore, prima di diventare membro delle Nazioni Unite nel 2002. Denis Changnon, un portavoce dell’ICAO a Montreal, mi ha detto che l’Organizzazione dà ai membri la piena sovranità sul proprio spazio aereo, un tema di controversia con Israele, che attualmente controlla lo spazio aereo sulla Cisgiordania e Gaza.

I Palestinesi potrebbero denunciare violazioni del loro spazio aereo alla Corte internazionale di Giustizia.

Se la Palestina aderisse alla Convenzione sul diritto del mare, otterrebbe il controllo delle sue acque territoriali a largo di Gaza, situazione altamente controversa dato che quelle acque sono attualmente sotto un blocco navale israeliano. Boyle ha detto che ha consigliato Abbas di aderire ai trattati, incluso quello del diritto del mare. Se lo fanno, i Palestinesi potrebbero denunciare il blocco israeliano alla Corte Internazionale di Giustizia e reclamare i giacimenti di gas al largo di Gaza, attualmente reclamati da Israele.

Per Israele e Stati Uniti sarebbe ancora più problematico se la Palestina aderisse al Tribunale Penale Internazionale [a cui aveva infine chiesto di aderire il 1 aprile 2015].

Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aia, Paesi Bassi (UN Photo, Flickr)

L’ambasciatore Christian Wenaweser, presidente dell’Assemblea degli Stati parte del Tribunale Penale Internazionale, ha dichiarato in un’intervista che la Palestina, come Stato osservatore, potrebbe aderire e chiedere alla Corte di indagare su tutti i presunti crimini di guerra e su altre accuse nei confronti di Israele, commessi nei territori palestinesi dopo luglio 2002, tra cui l’Operazione Piombo Fuso di Israele contro Gaza negli anni 2008/2009, che ha ucciso 1.400 civili palestinesi [cosa che la Palestina ha fatto da allora].

Ashrawi afferma che gli insediamenti israeliani in Palestina possono essere contestati presso il Tribunale Internazionale come crimini di guerra in quanto violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

I Palestinesi sanno che devono ancora negoziare la questione dei confini, dei rifugiati, degli insediamenti, dell’occupazione e di Gerusalemme. Secondo Abbas, spingere per l’adesione alle Nazioni Unite non significava che non volesse più negoziare; con l’adesione o lo status di membro osservatore, invece, la Palestina ha più leve in quei colloqui.

Nel tentativo di mettere in ombra e sviare la candidatura della Palestina, lo scorso venerdì, proprio pochi minuti dopo che Abbas e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu avevano finito di parlare all’Assemblea, il cosiddetto Quartetto, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Russia e le Nazioni Unite hanno annunciato la loro visione per un piano di un anno per un accordo complessivo.

Il Quartetto ha rinunciato alla sua ripetuta richiesta del congelamento degli insediamenti e non ha posto precondizioni ai colloqui. I Palestinesi, che stanno chiedendo un congelamento prima dei negoziati basati sui confini della pre-occupazione del 1967, hanno respinto il piano del Quartetto. Israele ha poi annunciato 1.100 nuovi insediamenti nella Gerusalemme orientale occupata.

Il Quartetto ha fallito di nuovo. Gli Occidentali non possono risolvere questo problema. Forse è il momento di trasformare il Quartetto in Quintetto, aggiungendo la Lega Araba, e dare voce ai Palestinesi. Come fare in modo che i media americani diventino più interessati a riportare in maniera più precisa la versione palestinese della storia, è un’altra questione.

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Articolo di Joe Lauria pubblicato su Consortium News il 27 settembre 2021
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per Saker Italia.

[I commenti in questo formato sono del traduttore]


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