Questa settimana lo scoppio di proteste di massa in Tunisia ha segnato il settimo anniversario delle rivolte della Primavera araba del 2011. Questa settimana, sette anni fa, l’uomo forte della Tunisia Ben Ali fuggì in esilio in Arabia Saudita. Prima che il mese fosse finito, anche il governante di lungo corso egiziano Hosni Mubarak venne cacciato. All’epoca, la rivoluzione era nell’aria e la regione era sconvolta da un potenziale cambiamento. Per molti aspetti, probabilmente, lo è ancora.

Sette anni dopo è opportuno che le proteste sociali siano riemerse in Tunisia. Ciò dimostra che la Primavera araba è ancora una questione aperta. Il potenziale cambiamento verso la piena democrazia non si è verificato né allora, né oggi. O almeno non ancora.

La Tunisia è stato il primo paese in cui le rivolte del 2011 hanno preso il via, dopo che un giovane venditore ambulante di nome Mohamed Bouazizi si è auto-immolato per protestare contro la povertà e la corruzione dello stato. Oggi, i manifestanti in Tunisia stanno ancora chiedendo la liberazione dall’oppressione politica ed economica.

Quindi, potremmo chiederci, cosa è successo alla Primavera araba e alla sua promessa di un radicale cambiamento progressista?

Prima di rivedere gli eventi importanti, è necessaria una nota di chiarimento. Ai tempi d’oro della Primavera araba alcuni analisti ipotizzarono che i movimenti sociali facessero parte di un grande piano orchestrato da Washington per liberarsi dei despoti che avevano superato le loro date di scadenza. Autori come Michel Chossudovsky e William Engdahl erano tra coloro che affermavano che la mano occulta di Washington era parte di un grande piano. Indicavano le comunicazioni tra il Dipartimento di Stato e alcuni gruppi di manifestanti, come il Movimento Giovanile 6 Aprile in Egitto, come prova di un piano generale manipolato da Washington. In tale prospettiva, la Primavera araba era solo un’altra versione delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, che Washington ha effettivamente orchestrato in altre parti del mondo, come in Georgia e in Ucraina nei primi anni 2000.

Lo scrivente non è d’accordo su quale sia stata la forza motrice dietro gli eventi della Primavera araba. Certo, Washington ha avuto una parte negli eventi, ma spesso questo ruolo è stato di tipo reazionario, per ridurre e deviare le insurrezioni di massa – rivolte che secondo le osservazioni dello scrivente sono state sincere rivolte popolari contro gli Stati Uniti e lo status quo sostenuto dagli europei che servono il capitale internazionale.

Invece di avere successo, quello che è accaduto alla Primavera araba rientra in tre categorie di reazione. Diamo uno sguardo a sette paesi della regione per illustrarlo.

Restaurazione

Tunisini ed egiziani possono aver visto Ben Ali e Mubarak scappare, ma sette anni dopo è evidente che il sistema di governo che entrambi questi uomini forti hanno gestito è stato restaurato. In Tunisia, il partito Nidaa Tounes, che Ben Ali ha patrocinato, è al potere come parte di una coalizione con il partito islamista Movimento della Rinascita. La struttura dominante del capitalismo clientelare rimane in vigore. L’anno scorso il governo ha sottoscritto un prestito con l’FMI per 2,9 miliardi di dollari, che è condizionato dall’imposizione di dure misure di austerità economica dirette alla maggioranza della popolazione della classe lavoratrice. Il dominio del capitale internazionale è stato così ripristinato.

In Egitto, il regime di Mubarak è stato restaurato tramite Abdel Fattah el-Sisi, che ha spodestato Mohamed Morsi nel luglio 2013. El-Sisi è stato un militare d’alto rango della trentennale dittatura di fatto di Mubarak. Certo, l’ascesa al potere di Morsi dopo Mubarak non ha rappresentato una rivoluzione democratica pluralista. Morsi era legato ai Fratelli Musulmani e il suo dominio di breve durata è stato associato ad una sconvolgente ostilità settaria. Il suo governo si è alienato i lavoratori laici egiziani. Tuttavia, il violento rovesciamento di Morsi da parte di el-Sisi può essere visto come una restaurazione reazionaria del vecchio regime. Come in Tunisia, oggi la situazione in Egitto assomiglia molto allo status quo di prima delle insurrezioni del 2011.

Repressione

Tre paesi che illustrano questa categoria sono Arabia Saudita, Bahrein e Yemen. Ci sono stati sviluppi simili in altri paesi come Giordania, Oman e Marocco, ma su scala minore.

Dopo che Ben Ali e Mubarak sono fuggiti, l’onda della Primavera araba ha presto colpito l’Arabia Saudita, il Bahrein e lo Yemen. Come la Tunisia e l’Egitto, questi tre paesi erano governati da despoti sostenuti dagli Stati Uniti. Se l’intero fermento regionale è stato in qualche modo una trama subdola per rinnovare lo status quo di Washington, come sostenevano alcuni autori, allora perché i despoti in Arabia Saudita e nel Bahrein non si sono piegati ai sicari dei “diritti umani” del Dipartimento di Stato?

Lo scrivente era in Bahrein quando in quel paese sono scoppiate le proteste il 14 febbraio 2011. Per quasi un mese, il regime monarchico degli Al Khalifa ha annaspato in un’insicurezza mortale. Le proteste erano principalmente guidate dalla maggioranza della popolazione sciita contro il sedicente re sunnita. Le loro richieste, per quanto osservato dallo scrivente, erano per una democrazia dedita ai lavoratori, non per una rivoluzione settaria in stile islamico. Le proteste del Bahrein sono state brutalmente represse con l’invasione delle truppe saudite a metà marzo 2011. La repressione saudita ha avuto il pieno appoggio degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, visto che lo stato insulare era ed è una base militare chiave per quelle due potenze nel geo-strategico Golfo Persico.

Proteste simili si sono scatenate in Arabia Saudita, in particolare nella Provincia di al-Sharqiyya, dove la popolazione prevalentemente sciita è stata storicamente emarginata dalla dinastia saudita profondamente sunnita. Le proteste in Bahrein e in Arabia Saudita continuano ancora oggi. Ma Washington e Londra, insieme all’indifferenza dei media occidentali, offrono copertura politica alla repressione in corso di queste proteste.

In Yemen, la storia è leggermente diversa, in quanto il movimento di protesta nato nel 2011 è riuscito nel 2012 a spodestare il regime appoggiato dagli Stati Uniti di ‘Ali ‘Abd Allah Saleh. Saleh è stato emarginato in un accordo messinscena supervisionato dagli Stati Uniti e dai sauditi perché venisse sostituito dal suo vice, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi. Quest’ultimo è stato descritto come un “presidente di transizione”, ma ha finito col ritardare la consegna del potere democratico che il popolo yemenita aveva richiesto nel 2011. Senza dubbio faceva parte del cinico piano americano per ripristinare il vecchio ordine. Tuttavia, i ribelli Huthi si sono stancati della sciarada e hanno cacciato il titubante Hadi con la forza delle armi nel settembre 2014. La guerra saudita sostenuta dagli Stati Uniti contro lo Yemen, iniziata nel marzo 2015, è stata da allora destinata a reprimere la rivolta yemenita al fine di ripristinare il loro fantoccio Hadi.

Cambio di regime

La Libia e la Siria rappresentano una categoria molto diversa di reazione – ovvero un cambiamento di regime opportunistico attuato da Washington, dai suoi alleati europei della NATO e dai regimi clienti regionali. A metà marzo 2011, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno sfruttato una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con il pretesto di “proteggere i diritti umani”, per lanciare una campagna di bombardamento aereo di sette mesi sulla Libia. Quel crimine di guerra ha provocato il rovesciamento di Mu’ammar Gheddafi e il suo omicidio per mano dei jihadisti appoggiati dalla NATO. Gheddafi è sempre stato oggetto dell’ostilità imperialista occidentale. Con la copertura delle rivolte popolari della Primavera araba, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno avuto la possibilità di cambiare regime in Libia. Ma sette anni dopo, il cambio di regime si è rivelato disastroso per il popolo della Libia, trasformando il paese un tempo socialmente sviluppato in uno stato fallito in preda al caos causato da jihadisti e signori della guerra. La crudele giustizia poetica è che la Libia da allora ha terrorizzato l’Europa con una crisi migratoria causata dal sabotaggio criminale della NATO di quel paese, che sta trasformando lo stato fallito in una via d’accesso per milioni di migranti del continente africano.

In Siria, le proteste minori a metà marzo 2011 sono state dirottate da provocatori statunitensi ed europei, come in Libia, e queste proteste si sono poi trasformate in una vera e propria guerra. Ben 500.000 persone sono state uccise nella guerra di quasi sette anni condotta da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita, Qatar, Israele e Turchia, che hanno sponsorizzato mercenari jihadisti, che sono arrivati in Siria da dozzine di paesi in tutto il mondo. Il piano di cambiamento di regime guidato dagli Stati Uniti per cacciare il presidente Bashar Al-Assad è fallito principalmente perché la Russia, l’Iran e gli Hezbollah libanesi sono intervenuti dando appoggio militare dello stato siriano.

Tuttavia, l’annuncio della scorsa settimana da parte del Segretario di Stato americano Rex Tillerson, secondo cui le forze militari americane devono espandere la loro presenza in Siria, dimostra chiaramente che l’audace e criminale programma di cambiamento di regime di Washington di Washington persiste.

Conclusione

Gli eventi della Primavera araba dell’inizio del 2011 sono stati epocali. Ma sette anni dopo, la promessa progressista delle rivolte deve ancora materializzarsi. Lo scoppio delle proteste sociali in Tunisia questa settimana è testimonianza della promessa non realizzata di liberazione democratica per le masse di lavoratori in quel paese e in tutta la regione. Gli Stati Uniti e l’Europa avevano, e continuano ad avere, un interesse acquisito nel mantenere lo status quo antidemocratico nella maggior parte della regione. I custodi del capitale internazionale sono riusciti ad ostacolare la rivoluzione con una combinazione di restaurazione e repressione. In Libia e in Siria, le potenze occidentali hanno usato la copertura della Primavera araba per un cambio di regime opportunistico con conseguenze orrende.

A sette anni di distanza, la Primavera araba sembra essere morta e sepolta come autentico movimento rivoluzionario popolare. Ma ovunque le masse siano oppresse da un’élite oligarchica, la speranza di liberazione sarà sempre eterna ed è sempre una potenziale minaccia per gli oppressori.

Le potenze occidentali possono essere riuscite a “gestire” in parte la primavera araba. Ma il potenziale di rivolta contro l’ordine capitalista appoggiato dall’Occidente non è scomparso. Quel potenziale è sempre lì, anche per una Primavera americana o europea.

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Articolo di Finian Cunningham pubblicato su Strategic Culture il 22 gennaio 2018.

Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.

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