– Ilio Barontini –
Il trattamento che una comunità riserva al suo cittadino nel momento in cui gli chiede di difenderla è uno specchio estremamente eloquente della moralità della società. Nel momento in cui indossa una uniforme l’individuo accetta di sottomettersi ad una gerarchia affidandole la sua vita nell’interesse della sopravvivenza della collettività. E’ noto che questo patto può essere spezzato dal soldato con la diserzione e con il tradimento: il cittadino soldato fa mancare il proprio sostegno alla comunità al momento del massimo bisogno, o addirittura, si pone al servizio di chi la minaccia. Ma c’è un’altra offesa possibile al rapporto fiduciario fra popolo e stato (qui inteso come classe dirigente): l’offesa che si verifica quando la gerarchia abusa del rapporto di subordinazione, giocando con la vita che l’individuo le ha consegnato, ed esponendola a rischi eccessivi o addirittura inutili. Un potere che si comporta in questo modo sta lavorando contro la propria legittimità, perché questo tipo di condotte corrodono il vincolo sociale su cui si regge lo stato. Nella storia diverse comunità hanno espresso diverse sensibilità quando i loro membri sono stati chiamati dai capi all’estremo sacrificio.
Atene alle Arginuse. Nel 406 A.C. la flotta ateniese affrontò presso le isole Arginuse una flotta combinata della Lega Peloponnesiaca e di Mitilene. La guerra (del Peloponneso) andava molto male per Atene da almeno 5 anni, e tuttavia i legni ateniesi riportarono una schiacciante ed insperata vittoria. La flotta peloponnesiaca venne distrutta e le unità di Mitilene si sganciarono dandosi alla fuga. A questo punto gli otto strateghi decisero di dividere le forze: la maggior parte della flotta fece vela su Mitilene, dove si trovava una squadra ateniese in difficoltà. Una cinquantina di navi rimase sul posto per recuperare i naufraghi dei 25 vascelli ateniesi affondati. Invano: una tempesta sopraggiunta interruppe le operazioni di salvataggio. Ad Atene ben presto la gioia per la vittoria lasciò il posto allo sgomento per l’abbandono dei naufraghi (che dovevano essere due o tremila, tanti, per una comunità di circa 200.000 abitanti, di cui solo un quarto cittadini a pieno titolo). Gli avversari politici degli strateghi più in vista, Teramene e Trasibulo, allestirono un processo in cui l’emotività per la perdita dei parenti ebbe la meglio sulla razionalità e sulla gioia per la vittoria: nonostante l’opposizione di Socrate, cui per una coincidenza proprio il giorno del processo spettava la supervisione dei lavori assembleari, misero a morte i sei strateghi rientrati in patria con un verdetto viziato da una serie di infrazioni procedurali. L’ingiustizia di questa decisione apparve in seguito palese agli stessi ateniesi.
Dunkerque. Il mito dell’operazione “Dinamo”, l’evacuazione del corpo di spedizione britannico intrappolato dall’offensiva tedesca in Francia nel giugno del 1940 si formò quasi immediatamente, e prese le mosse dal discorso di Winston Churchill tenuto il 4 giugno 1940 alla Camera dei Comuni. L’orazione è famosa per il climax finale (“combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescenti forza e fiducia nei cieli, difenderemo la nostra isola a qualsiasi costo, combatteremo sulle spiagge etc…”) ma è pregevole anche per la franca ammissione della sconfitta e (questo è rilevante ai nostri fini) per l’onore reso al corpo di spedizione rotto ed evacuato: “Un salvataggio miracoloso, ottenuto con valore, perseveranza, perfetta disciplina, impiego di risorse, ingegno, indefessa fedeltà è davanti agli occhi di tutti noi. Il nemico è stato tenuto a bada dalle truppe Francesi e Britanniche in ripiegamento tanto violentemente che non ha fatto nemmeno seri tentativi di affrettare l’evacuazione. La RAF ha ingaggiato la forza principale della flotta aerea tedesca, e gli ha inflitto perdite con un rapporto di 4 a 1. La flotta, utilizzando quasi mille navi di ogni tipo, ha traghettato più di 335.000 uomini, Francesi e Britannici, fuori dalle fauci della morte e della vergogna, alla loro terra natia ed ai compiti che incombono. Dobbiamo stare molto attenti a non attribuire a questo salvataggio i contorni di una vittoria. Le guerre non si vincono con le evacuazioni. Ma c’è stata una vittoria in questo salvataggio, di cui dobbiamo prendere nota.”
Tempesta Invernale. Il 21 novembre 1942 Hitler rifiutò libertà di azione al gruppo di Armate B schierato intorno a Stalingrado “nonostante il pericolo di un temporaneo accerchiamento”. Con l’ “ordine tassativo” del 24 novembre venne richiesto agli uomini accerchiati (nel frattempo le tenaglie della “operazione Urano” si erano chiuse) di organizzare le difese del “calderone” e il ponte aereo per rifornirlo. Il 12 dicembre i Tedeschi lanciarono l’operazione “tempesta invernale”, una offensiva mirante a ricostituire i collegamenti con i 330.000 uomini intrappolati a Stalingrado. L’offensiva produsse cruente battaglie e giunse, il 19 dicembre, ad una cinquantina di chilometri dal perimetro del “calderone” per esaurirsi sul fiume Myskova. Conscio dell’imminente fallimento dell’operazione il feldamaresciallo Von Manstein sollecitò Hitler perché consentisse una sortita generale delle forze accerchiate ancora efficienti in direzione dei soccorritori. Si trattava di una operazione puramente umanitaria, dal momento che le truppe scampate dalla sacca non sarebbero state reimpiegabili in tempi ragionevolmente brevi. Hitler, comunque, si oppose, né Von Paulus, accerchiato, ebbe il coraggio di porre in essere una operazione tanto rischiosa in violazione degli ordini superiori. Il destino degli uomini accerchiati fu dunque segnato.
Slovyansk. Dopo tre mesi di resistenza contro forze preponderanti (circa mille miliziani contro un numero almeno 10 volte superiore di governativi) ai primi di luglio i difensori di Slovyansk si trovarono a rischio accerchiamento essendosi aperta una falla nelle difese fra la città e Lisichansk. La difesa della città aveva ormai un’aura di leggenda e molti consideravano un suo abbandono semplicemente inconcepibile. Tuttavia, nella notte fra il 5 ed il 6 luglio, Igor Strelkov organizzò una colonna che riuscì ad evacuare con successo e quasi senza perdite la città (con la sola eccezione di un manipolo di guastatori rimasto a coprire la ritirata), ricongiungendosi con la guarnigione di Khramatorsk e quindi riparando a Gorlovka. Nelle aspre polemiche seguirono un miliziano scrisse un commento ironico: “scusate se non siamo morti a Slovyansk”: “Inoltre, negli ultimi giorni, diversi comandanti hanno addirittura tradito, lasciando scoperte le difese di Slovjansk sul lato del sobborgo di Nokolayevka. Senza alcuna speranza di aiuto dalla Russia, una ulteriore difesa della città ad opera delle forze numericamente esigue della milizia avrebbe votato ad una morte inutile quella che è praticamente l’unica unità pronta al combattimento ed esperta della Milizia Popolare del Donbass”. E anche Strelkov lo aveva ripetuto più volte: “siamo pronti a morire, ma non vogliamo morire inutilmente”. Il seguito lo conosciamo: la ritirata da Sloviansk costituì la premessa indispensabile per il ridispiegamento ed i successi dell’autunno.
Debalchevo Da quanto tempo si parla della possibilità che le unità governative schierate a Debalchevo vengano accerchiate? Non occorre andare lontano: restiamo alle cronache riportate in questo blog. Il 20 settembre scorso (4 mesi orsono !) pubblicavamo una “situazione militare” a firma Stefano Orsi che a proposito osservava:
Debal’tseve. Questo saliente rappresenta ormai da mesi la “spina nel fianco” dello schieramento novorusso. Nessuno dei ripetuti tentativi di sfondare le difese di Kiev e recuperare il pieno controllo dell’importante crocevia tra la E50 e la E40 ha sortito un esito positivo. Di conseguenza, sin dai primi giorni di tregua i comandi governativi hanno potuto ammassarvi riserve, prendendo ad esercitare quel tipo di costante “pressione” sulle truppe novorusse che abbiamo registrato anche a sud. Ci sono stati molti scontri e scambi di artiglieria, in conseguenza dei quali parte del saliente è stata occupata da un battaglione della Repubblica di Donetsk. Questa unità si è frapposta tra le retrovie e le truppe in prima linea nemiche, e resiste in questa posizione da alcuni giorni. Non è affatto detto, tuttavia, che riesca nell’ intento di isolare il saliente trasformandolo in una sacca.
Avete letto bene. Sono quattro mesi che le truppe governative schierate a Debalchevo rischiano l’accerchiamento. Questo non ha sconsigliato il comando di Kiev di riempire il saliente fino a scoppiare di truppe, mezzi e attrezzatura, cercando addirittura di estenderne il perimetro, e utilizzandolo per colpire in ogni direzione il territorio controllato dai novorussi. Era letteralmente impensabile, in qualsiasi scenario, che l’eliminazione di questo saliente non fosse la priorità assoluta delle forze Novorusse in caso di ripresa dei combattimenti. Di ciò il comando ucraino non si è dato pensiero. Prima dell’estate esisteva almeno la scusante di potere sottovalutare la capacità di manovra degli uomini di Donetsk e di Lugansk: non più. L’esito della campagna estiva (con le migliaia di uomini valorosi soldati ucraini costretti a lottare senza speranza nelle numerose sacche al confine russo in cui li aveva cacciati il loro comando) ha reso palese anche alle intelligenze più modeste la pericolosità e la mobilità delle unità della milizia.
Questo è il motivo per cui siamo increduli di fronte a quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. Come è possibile che un pericolo tanto palese, tanto evidente, sia stato trascurato in maniera così grossolana? Che migliaia di uomini (si dice settemila o ottomila) siano stati schierati e mantenuti per quattro mesi in un ambiente con un collegamento logistico tanto precario alle retrovie?
Si, lo sappiamo, Debalchevo non è tecnicamente accerchiata, come spiegato nella Sitrep di Stefano Orsi. Ma la stessa Sitrep non lascia dubbi sul fatto che gli uomini schierati lì dentro stanno vivendo in un inferno paragonabile a quello in cui si sono trovati i militari coinvolti nelle battaglie di accerchiamento estive. Qual è la caratura morale di un governo che tratta così i propri soldati, i propri cittadini in armi?
I vari casi che abbiamo illustrato crediamo mostrino in maniera chiara la natura profondamente compromessa dei rapporti fra potere e popolo nell’Ucraina post Majdan. Per trovare un esempio di cinismo e indifferenza nei confronti degli uomini paragonabili a quelli mostrati dal comando di Kiev bisogna cercare precedenti storici di organizzazioni militari in crisi in contesti politici di mobilitazione eccezionale imposta da regimi fascisti (in effetti gli italiani potrebbero ricordare la fuga di Vittorio Emanuele III e l’abbandono delle armate schierate all’estero dopo l’8 settembre). I colpi inferti agli uomini di Debalchevo in questi giorni non potranno non ripercuotersi sul rapporto fra governanti e governati. Come abbiamo detto all’ inizio: il trattamento che una comunità riserva al suo cittadino nel momento in cui gli chiede di difenderla è uno specchio estremamente eloquente della moralità della società. Nessun popolo dovrebbe affidare le proprie vite ad una dirigenza tanto immorale da giocare con le vite degli individui con tanto cinismo.
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