Sebbene l’ultimo zar russo, Nicola II, amasse considerarsi un uomo di pace, favorì l’espansione dell’Impero russo, e considerava la Germania la principale minaccia al suo territorio.

Sono trascorsi cento anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale, dal novembre 1918 al novembre 2018. Con la celebrazione della Giornata dell’Armistizio, l’11 novembre 2018, è arrivato il momento giusto per guardare indietro a quei tempi difficili dalla prospettiva di uno scrittore cosacco russo.

L’1 agosto 1914, l’Impero tedesco dichiarò guerra all’Impero russo, un’azione che ebbe conseguenze di vasta portata. L11 novembre 1918 questa guerra atroce terminò ufficialmente. Quando l’armistizio con la Germania fu firmato a Compiègne, in Francia, alle 11 ora locale – “l’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese” – entrò in vigore un cessate il fuoco che pose fine alla Prima Guerra Mondiale, nella quale fu coinvolta la maggior parte delle principali potenze di quell’epoca.

Sebbene l’ultimo zar russo, Nicola II, amasse considerarsi un uomo di pace, favorì l’espansione dell’Impero russo, e considerava la Germania la principale minaccia al suo territorio, anche se la Germania era governata dal cugino dello zar, il Kaiser Guglielmo II. Nicola II fu esortato dal suo consiglio a non entrare in guerra con la Germania perché sarebbe stato pericoloso per entrambi i paesi, indipendentemente da chi avesse vinto. Tuttavia, il granduca Nikolaj Nikolaevič disse che la Russia, se non si fosse mobilitata, avrebbe “affrontato i più grandi pericoli, e una pace comprata con la codardia avrebbe scatenato la rivoluzione in patria”.

Il fronte orientale durante la Prima Guerra Mondiale era molto più esteso di quello occidentale. Correva dal Mar Baltico, nel nordovest dell’Impero russo, al Mar Nero nel sud, una distanza di oltre 1.600 chilometri. A causa della sua lunghezza, la linea difensiva fu facile da sfondare. Una volta interrotte, le reti di comunicazione non funzionarono più, rendendo difficile per le truppe russe organizzare contromosse rapide e bloccare qualsiasi sfondamento delle forze tedesche.

Milioni di contadini russi furono arruolati negli eserciti dello zar, ma le scorte di fucili e munizioni rimasero inadeguate. Si stima che un terzo degli uomini abili della Russia prestasse servizio nell’esercito. I contadini coscritti non erano in grado di lavorare nelle fattorie che producevano la solita quantità di cibo. Nel novembre del 1916, i prezzi del cibo erano quattro volte più alti di prima della guerra. Di conseguenza, gli scioperi per ottenere stipendi più alti divennero comuni nelle città della Russia.

I cosacchi fornirono un numero sproporzionato di soldati per la guerra. Le donne rimaste a casa lottavano per sfamare le loro famiglie. Durante il rovesciamento della monarchia, molti cosacchi stanchi della guerra e impoveriti si schierarono con i lavoratori e i soldati semplici, contro il regime zarista. Tradizionalmente, i cosacchi dell’Impero russo erano sempre stati guerrieri che fornivano agli zar truppe a cavallo in cambio di terra. Durante la Prima Guerra Mondiale, le comunità dei cosacchi furono indebolite e alcune addirittura distrutte. Eppure la guerra ha contribuito a forgiare e consolidare l’identità cosacca che è sopravvissuta fino ad oggi.

In qualità di comandante supremo dell’Esercito russo, lo Zar Nicola II fu ritenuto responsabile dei fallimenti miliari del paese nella Prima Guerra Mondiale. Durante il 1917, ci fu un forte declino del suo sostegno in Russia. L’1 marzo 1917 fu costretto ad abdicare. Il 25 ottobre 1917, i Bolscevichi presero il potere e Vladimir Lenin, il nuovo leader del governo russo, annunciò un armistizio. Mandò Lev Trockij, il Commissario del Popolo per gli Affari Esteri, a capo della delegazione russa a Brest-Litovsk per negoziare un accordo di pace con la Germania e l’Austria.

Il romanzo “Il Placido Don” affronta il destino dei cosacchi del Don durante la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Michail Alexandrovič Šolochov (1905-1984) creò un panorama ampio e sfaccettato della vita cosacca all’inizio del XX secolo in Russia meridionale. Per il suo eccezionale lavoro l’autore ricevette il Premio Stalin, il Premio Lenin e il Premio Nobel per la letteratura.

In questo romanzo, l’inizio della Prima Guerra Mondiale e l’invasione delle truppe tedesche in Russia sono raccontate da un punto di vista cosacco: “I cosacchi cavalcavano ad un trotto elegante. Poi videro le uniformi blu dei dragoni tedeschi. “Iniziate a sparare”, urlò Astrachan, saltando dalla sua sella. In posizione verticale, entrambe le redini avvolte intorno alle sue mani, sparò la prima scarica. Il cavallo di Ivankhov si imbizzarrì, gettando a terra il suo cavaliere. Mentre cadeva, Ivankhov vide come morì uno dei tedeschi”. Fu una delle prime vittime tedesche in Russia. Ne seguiranno molte altre.

Nel suo capolavoro Michail Šolochov non solo descrisse i brutti tempi per i cosacchi del Don durante la Prima Guerra Mondiale, ma anche la fine del regime zarista come conseguenza della guerra. Molti reggimenti cosacchi zaristi cambiarono schieramento. Dopo il 1918, seguirono i Bolscevichi, dando loro sostegno militare. Più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale, chiamata la Grande Guerra Patriottica in Russia, alcuni reggimenti cosacchi entrarono nell’Armata Rossa e combatterono per l’Unione Sovietica contro gli invasori Nazisti.

Nel romanzo la figura di Bunčuk è un cosacco bolscevico. Spara in bocca ad un ufficiale zarista mentre questo tiene un discorso per riconquistare i cosacchi bolscevichi per la causa dello zar. Poi spiega i motivi di questa azione a un compagno: “Sono loro o noi. Non c’è via di mezzo. Le persone come lui devono essere uccise come le vipere”. Molte “vipere” vengono uccise alla fine del romanzo, quando la sciabola dei cosacchi bolscevichi catturano i controrivoluzionari.

Due cosacchi del Don bolscevichi parlano di Vladimir Lenin nel corso del romanzo. Čikhamasov dice: “È un cosacco della stanica di Velikij Kokneskaja. Ha servito nell’artiglieria. A proposito, dalla sua fisionomia si capisce che è un cosacco del basso Don: gli zigomi alti, gli occhi obliqui. È un vero cosacco ma non lo dirà ora. Sta per rovesciarne molti di più, non solo lo zar. No, Mitrič, non discutere! Lenin è un cosacco”.

Michail Šolochov, di origine cosacca, nacque nella stanica di Veshenskaya, il 24 maggio 1905. Si unì ai Bolscevichi nel 1918. Nel 1923 si trasferì a Mosca, dove lavorò come autore e giornalista. Dopo aver pubblicato il suo ciclo “Racconti del Don” (1926), iniziò a scrivere il romanzo epico “Il Placido Don”. Il lavoro di 2.000 pagine richiese 14 anni per essere completato (1926-1940). Venne pubblicato in quattro volumi di 500 pagine ciascuno.

Per “Il Placido Don” l’autore ricevette il Premio Stalin (1941), l’Ordine di Lenin (1955), il Premio Lenin (1960) e il Premio Nobel per la letteratura (1965). Il Comitato per il Premio Nobel diede la seguente spiegazione per la sua scelta: “Il Premio Nobel per la letteratura 1965 va a Michail Šolochov a causa della forza artistica e dell’integrità con cui ha creato il romanzo epico “Il Placido Don”, mostrando una fase storica nella vita del popolo russo”.

Michail Šolochov divenne famoso in Unione Sovietica e in tutto il mondo. Era un membro del Soviet Supremo dell’URSS e vicepresidente dell’Unione degli Scrittori Sovietici. Michail Šolochov venne due volte insignito del titolo “Eroe del Lavoro Socialista”. Anche l’asteroide 2448 Sholokhov ha immortalato il suo nome. A Mosca, è stata intitolata all’autore l’Università Statale Umanistica Šolochov. Questo istituto pedagogico è stato fondato nel 1951, e nel 2005 si è classificato tra le migliori 14 università pedagogiche della Federazione Russa.

Il romanzo “Il Placido Don” segue la tradizione dei romanzi storici e sulla società russi. Può essere paragonato a “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj. L’opera di Michail Šolochov si occupa della vita dei cosacchi del Don all’inizio del XX secolo, tra il 1912 e il 1922. I cosacchi del Don godevano di maggiori libertà rispetto agli altri sudditi della Russia imperiale. Non dovevano pagare le tasse e non erano servi della gleba, ma cittadini liberi. Vivevano come agricoltori, allevando cavalli e bestiame. I cosacchi del Don erano e sono ancora grandi artisti dell’equitazione. Sapevano anche come maneggiare la lancia, la sciabola, il fucile e la pistola.

I cosacchi del Don erano una società militare, costantemente impegnata in guerra, come spiega una vecchia canzone cosacca: “Non è l’aratro che sta coltivando questa gloriosa terra./La nostra terra viene scossa dagli zoccoli dei cavalli./La nostra terra è coperta dalle teste dei cosacchi./Il nostro pacifico Don è adornato da giovani vedove./Nostro padre, il Don, ha molti orfani./Le lacrime dei padri e delle madri finiscono tra le onde del Don che ama la pace”.

Molti passaggi del romanzo sono lirici, fluiscono silenziosamente come il fiume stesso, la cui superficie cambia dal giorno alla notte e durante le quattro stagioni: “La sera il cielo divenne rosso ciliegia ad ovest. Dietro il grande pioppo la luna stava sorgendo, gettando una fredda luce bianca sul Don. Di notte il mormorio dell’acqua si mescolava alle voci di innumerevoli anatre che migravano verso sud”.

Sfortunatamente, questo meraviglioso romanzo è stato quasi dimenticato al giorno d’oggi. Vale la pena leggerlo, non solo per le ricche informazioni sulla Prima Guerra Mondiale nel sud della Russia, ma anche come documento della vita cosacca sul fiume Don. Questo libro potrebbe essere un regalo di Natale adeguato? Il seguente canto natalizio dei cosacchi del Don sembra invitante: “Gelo e freddo, ghiaccio a Natale, ghiaccio cattivo/Hai congelato il lupo/Hai anche portato l’amore in casa”.

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Articolo di Olivia Kroth pubblicato su The Duran il 26 ottobre 2018.
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.

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