Sebbene il formidabile governatore di New York Andrew Cuomo abbia dichiarato [in inglese] che il virus Covid-19 “ci ha preceduto fin dal primo giorno. Abbiamo sottovalutato il nemico, e questo è sempre pericoloso, amici miei. Non dobbiamo farlo di nuovo”, è troppo aspettarsi dalla maggior parte dei personaggi politici che ammettano mai di aver sbagliato su qualcosa. Il Presidente Trump, ad esempio, rifiuta categoricamente di riconoscere che nel gennaio 2020 ha dichiarato [in inglese] che “abbiamo totalmente sotto controllo [l’epidemia del virus]”, e ci sono innumerevoli casi simili di negazione della realtà da parte di altri leader, non solo sulla pandemia, ma su moltissime sfaccettature degli affari internazionali. Questa riluttanza si estende ai media, anche se a volte, va detto, alcuni sono costretti a riconoscere fatti per loro sgradevoli, e ad adeguare la loro posizione di conseguenza.
Un recente esempio di non adeguamento, tuttavia, è la continua campagna di propaganda e pubbliche relazioni dei media occidentali contro la Russia.
Il 9 aprile Al Jazeera ha pubblicato un articolo [in inglese] secondo cui “Una squadra di astronauti russo-statunitense è stata lanciata giovedì verso la Stazione Spaziale Internazionale dopo una stretta quarantena nel bel mezzo della pandemia di coronavirus.
L’astronauta della NASA Christopher Cassidy, e Anatolij Ivanishin e Ivan Vagner di Roscosmos sono partiti come previsto dal Cosmodromo di Bajkonur gestito dalla Russia in Kazakistan”. Si è trattato di un eccellente pezzo di 400 parole sulla missione, proprio come ci si aspetterebbe da Al Jazeera.
Invece, il New York Times, come accertato da una ricerca sul suo sito web il 10 aprile, non ha menzionato affatto la missione. Il Washington Post ha pubblicato un articolo di dodici parole che recitava nella sua interezza [in inglese] “Da parte della Associated Press, 9 aprile 2020 – Un equipaggio spaziale russo-americano è partito per la Stazione Spaziale Internazionale”. Fine.
La ragione della riluttanza da parte dei media tradizionale statunitensi di informare il mondo su un evento internazionale così importante è che la Russia ha svolto il ruolo principale in una missione spaziale di successo con gli Stati Uniti. Immaginate la copertina se la navicella spaziale non fosse stata una Sojuz russa, ma una SpaceX prodotta dagli Stati Uniti (ancora nella fase di uno sviluppo enormemente costoso) lanciata [in inglese] dal Kennedy Space Center. Ci sarebbero stati titoli di prima pagina con esortazioni a “Mantenere l’America Grande” dal comandante dello spazio a Washington.
E così la propaganda della terza Guerra Fredda continua, coinvolgendo ogni sorta di importanti affari internazionali, non ultimo la Crimea che (non diciamolo ad alta voce) sta andando molto bene, e ci mancherebbe, dopo la restituzione alla Madre Russia.
Bisogna riconoscere, tuttavia, che il Washington Post ha segnato il sesto anniversario della restituzione con un pezzo del 18 marzo che (sebbene con riluttanza) ha riconosciuto l’adesione della Crimea alla Russia. Ha notato, tra l’altro, che “nella stessa Crimea, l’annessione è stata popolare [entrambi i link in inglese], specialmente tra la grande popolazione di anziani russi etnici della Crimea. Più di cinque anni dopo, e miliardi di rubli di investimenti dopo, rimane popolare”. In Occidente è obbligatorio usare la parola “annessione” quando si fa riferimento all’adesione della Crimea alla Russia a seguito di un referendum popolare, ma perfino il Post non può sfuggire ai fatti, che sono così sgradevoli per i propagandisti.
Nel 1783 la Crimea divenne parte della Russia e rimase tale fino a quando, come registrato [in inglese] dalla BBC, “Nel 1954 la Crimea fu ceduta all’Ucraina come dono dal leader sovietico Nikita Khrushchev, che era lui stesso mezzo ucraino”. La maggior parte dei cittadini voleva riunirsi alla Russia piuttosto che stare con l’Ucraina post-rivoluzione storpia che li avrebbe perseguitati a causa del loro retaggio russo. Una delle sue prime azioni “fu quella di abrogare una legge del 2012 che riconosceva il russo come lingua ufficiale regionale”, e il governo di Kiev ha fatto presagire brutte cose per le minoranze.
Raramente è stato affermato che il 90% degli abitanti della Crimea sono di lingua russa, di cultura russa e di istruzione russa, e hanno votato per “sciogliere i legami politici che li collegavano ad un altro” (usando le parole della Dichiarazione di Indipendenza del 1776) e ricongiungersi alla Russia. Sarebbe strano se non avessero voluto aderire ad un paese che non solo avrebbe accolto con favore la loro parentela, empatia e lealtà, ma che sarebbe stato economicamente benevolo circa al loro futuro, come è stato ampiamente dimostrato [entrambi i link in inglese] dalla conseguente crescita e prosperità. Come anche il Washington Post ha dovuto riconoscere, “i tre più grandi gruppi etnici della Crimea sono, nel complesso, felici della direzione presa dagli eventi nella penisola”.
All’epoca in cui questi gruppi etnici hanno votato per ricongiungersi alla loro madrepatria, cinque anni fa, l’Occidente, e in particolare l’amministrazione di Washington, decisero di opporsi a questa mossa. Non importava il fatto che si trattò di un voto equo e libero, perché ci sono modi per sconfiggere il buon senso e le aspirazioni nazionali mentre si crea l’impressione che sia sbagliato esprimere i propri sentimenti e desideri, se favoriscono una nazione che è anatema per quelli che fanno le regole.
Ad esempio, il governo in Crimea ha invitato [in inglese] gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) a testimoniare e valutare lo svolgimento del referendum tenuto per determinare se il popolo di Crimea desiderasse rimanere sotto il governo di Kiev o rientrare in Russia. Non c’erano condizioni, e l’invito venne mandato al quartier generale dell’OSCE a Vienna. Poi ci fu una pausa durante la quale venne considerata la questione in chissà quali sale del potere. E l’OSCE ha evocato una scusa intrigante per rifiutarsi di valutare la condotta del plebiscito. Come riferito dalla Reuters, “una portavoce ha affermato che la Crimea non ha potuto invitare gli osservatori in quanto la regione non era uno stato a pieno titolo, e quindi non era membro dell’organizzazione di 57 membri. “Per quanto ne sappiamo, la Crimea non fa parte dell’OSCE, quindi sarebbe difficile per loro invitarci”, ha affermato. Ha anche affermato che l’Ucraina, che è membro dell’OSCE, non ha mandato alcun invito, e che l’organizzazione “rispetta la piena integrità territoriale e sovranità dell’Ucraina””. Non si può inventarlo.
I sentimenti e le aspirazioni dei cittadini della Crimea non avevano importanza per l’OSCE o per l’Occidente nel suo insieme. L’Occidente voleva, e continua a volere, che l’Ucraina governasse la Crimea, e di conseguenza sembra determinata ad infastidire e sanzionare la Russia. Ma nessuno può seriamente immaginare per un momento che la Russia consegnerà la Crimea al governo di Kiev. Quindi qual è la risposta?
Nessuno si aspetta che il Grande e Buon Occidente ammetta apertamente di avere torto sulla Crimea, e che la regione e i suoi cittadini stanno in realtà incommensurabilmente meglio di quanto starebbero se fossero sottoposti al dominio di Kiev. Ma di solito esiste una via d’uscita da un simile dilemma, che può essere adottato delicatamente e senza imbarazzo. Tutto ciò che l’Occidente deve fare è accettare tranquillamente lo status della Crimea e rimuovere le sanzioni anti-russe, senza fanfara. Ci sarebbe scontento tra gli ultranazionalisti a Kiev, ovviamente, ma il mondo sarebbe un posto più sicuro e più felice. Sicuramente è un degno obiettivo da raggiungere, no?
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Articolo di Brian Cloughley pubblicato su Strategic Culture il 14 aprile 2020
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per Saker Italia.
[le note in questo formato sono del traduttore]
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