Ventiquattro anni fa la nostra patria si risvegliò con la musica del Lago dei Cigni. Il 19 agosto 1991 la Televisione di Stato annunciò che il Presidente Gorbachev, per ragioni di salute, non era in grado di espletare le sue funzioni e il potere passava nelle mani del Comitato Statale per lo Stato di Emergenza. Iniziò un tentativo di colpo di Stato durato tre giorni, seguito da una breve agonia di un grande impero. Nel dicembre dello stesso anno, l’Unione Sovietica, senza speranza e senza eventi di rilievo, cessava di esistere.

Come è potuto succedere che una delle due superpotenze mondiali, la nazione con l’esercito più forte, un sistema educativo di prima categoria e una solida industria, si sia sfasciata di colpo lasciando al suo posto piccole repubbliche, frammentate e devastate dalla guerra? Chi bisognava incolpare, Gorbachev e Yeltsin, la CIA, la Voce dell’America? Perché era collassata l’Unione Sovietica?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo: l’URSS collassò perché perse la Guerra Fredda, che non era solo una lotta per il dominio mondiale ma anche una competizione fra due (diversi) sistemi socio-economici. Il sistema sovietico non riuscì a sopravvivere alla sfida con l’Occidente e si dimostrò incapace di auto-riformarsi dall’interno. Alla fine, semplicemente collassò, insieme a tutta la nazione.

I classici ci insegnano che l’economia è la base per definire e mettere a fuoco l’immagine di uno Stato. I successi e i fallimenti di una nazione dipendono dalla qualità e dal grado di sviluppo dell’economia. Un Paese apparentemente forte ma con un sistema economico difettoso è un colosso con i piedi d’argilla, basta un piccolo colpo e crolla sotto il suo stesso peso. Questo è quello che è successo all’Unione Sovietica.

All’inizio del periodo staliniano, il capitalismo passava dei brutti momenti. Un’oligarchia finanziaria senza regole, una corruzione totale e l’immenso sfruttamento dei lavoratori avevano portato alla Grande Depressione e al collasso quasi completo delle istituzioni governative delle nazioni occidentali.

Nello stesso tempo, l’URSS sotto Stalin era di fatto diventata uno stato corporativo in cui la pianificazione centrale aveva completamente sostituito il libero mercato.

Negli anni ’30 tutto questo presentava dei vantaggi immediati: un enorme passo verso la modernizzazione, e la costruzione di centinaia, migliaia di nuove fabbriche, strade e città. Una rigida integrazione verticale aveva consentito la sconfitta dell’esercito più forte della storia e, dopo la guerra, la ricostruzione della nazione e lo sviluppo di nuovi e impegnativi progetti: programmi nucleari, spaziali, radar, aviogetti, computers e così via. E’ abbastanza corretto dire che Stalin prese una nazione con gli aratri e la lasciò con la bomba atomica. Alla fine degli anni ’50 l’URSS era la nazione più avanzata per quello che riguardava scienza e tecnologia. In un quarto di secolo il livello di vita era aumentato enormemente.

Alla fine degli anni ’50 il rigido sistema di comando incominciò a perdere colpi. Per diversi motivi le direttive della Commissione per la Pianificazione Statale venivano disattese, e i responsabili (manager e direttori a livello locale) se la cavavano con dichiarazioni false, frodi e volontarismo. Ladrocinio e corruzione tornarono a rifiorire. Il sistema staliniano di gestione dello Stato si era rivelato di grande efficacia nei momenti di crisi e mobilitazione, ma non era adatto ad un contesto pacifico.

La risposta a tutto questo, a metà degli anni ’60 fu una nuova politica economica, le cosiddette riforme di Kosygin, che aumentarono l’autonomia finanziaria delle imprese. Questo fu un allontanamento significativo dalla centralizzazione stalinista. I manager delle varie imprese (i cosiddetti “Direttori Rossi”) divennero di fatto dei quasi-capitalisti. Avevano la disponibilità di reali risorse finanziarie che potevano essere utilizzate in incentivi per i lavoratori, nella costruzione di alloggi per i dipendenti, in ambito sociale (rette scolastiche, campi estivi, vacanze ecc.) e, anche se in misura limitata, nello sviluppo della produzione.

La riforma di Kosygin è considerata un esperimento fallito, ma non è così. Gli incarichi tecnici e le pianificazioni programmate indicano che la riforma ebbe anche troppo successo. La causa del fallimento delle riforme di Kosygin è stata proprio il suo successo troppo rapido, che ha minato la stabilità del sistema socio-politico.

In ogni caso, la logica continuazione delle riforme, la transizione all’economia di mercato, non ebbe luogo. La nazione entrò in un periodo di stagnazione con una strana economia di tipo dualistico: un’impresa aveva disponibilità finanziarie, ma non poteva spendere a propria discrezione. Un’impresa aveva i mezzi di produzione ma non poteva decidere che cosa produrre.

L’Occidente (intanto) non aveva perso tempo. Prendendo spunto, anche prima della guerra, dalle migliori politiche socialiste, le nazioni capitaliste si erano mosse verso il controllo statale dell’economia, la pianificazione strategica e lo sviluppo dei servizi sociali. Queste misure, in concomitanza con un mercato libero e un aumento della produttività, avevano contribuito ad un enorme miglioramento del tenore di vita.

stalinpropaganda

Negli anni’60 in Occidente si era formata una vasta classe media e la base della crescita economica era data dal consumismo privato, che rendeva più complesse le strutture economiche ed aumentava ancora il tenore di vita.

Nel frattempo la nostra economia segnava il passo. La produzione di beni di consumo calava di anno in anno. D’altro canto un’azienda non poteva investire in prodotti per cui ci fosse la domanda (e ricavare profitto da questo).

Inoltre, per una serie di motivi, tutti gli investimenti statali andavano all’industria pesante e al complesso industriale militare. Certo, tutte le industrie della difesa dovevano fabbricare anche prodotti per i civili ma elenchi e prezzi erano stabiliti dall’alto e i fondi allocati a queste produzioni avevano una bassa priorità.

In confronto alle nazioni occidentali, il mercato era estremamente sottosviluppato. Non che ci sia molto da dire. Basta ricordare i negozi, i caffè, i taxi o i saloni di parrucchiera del periodo sovietico. Non ce n’erano abbastanza ed erano disgustosamente scadenti. Dopo tutto i servizi sono il settore più grosso, importante e flessibile di un’economia moderna.

La Guerra dello Yom Kippur e la conseguente crisi petrolifera del 1973 fece aumentare moltissimo la richiesta per le risorse energetiche sovietiche e fu letteralmente possibile “lubrificare” i problemi dell’economia sovietica con il ricavato della vendita di gas e petrolio all’Occidente. Anche se più avanzata e diversificata che negli anni ’50, l’economia sovietica, negli anni di stagnazione, continuò a perdere terreno nei confronti dell’Occidente. All’Ovest si comperavano sempre più beni di consumo, dai tessuti alle scarpe fino a complesse linee di produzione.

Anche se a prima vista poteva sembrare poderosa, la nostra industria sorprendentemente produceva pochi prodotti di qualità internazionale: armi, missili, alcuni generi di macchinario pesante (turbine) e metalli di vario tipo e questo probabilmente è tutto. Gli apparecchi televisivi e i macinini da caffè sovietici venivano acquistati solo perché non ce n’erano altri, ed erano l’oggetto delle battute di spirito di quell’epoca. L’industria russa dei nostri giorni è di fatto molto più vicina agli standard mondiali di quella stagnante dell’era sovietica.

TV

Un’altra maledizione dell’economia sovietica era la sua terribile inefficienza. Per prima cosa, il principio del posto di lavoro per tutti, garantito dallo stato sociale, significava che i lavoratori negligenti non potevano essere licenziati e le aziende non erano incentivate a migliorare le tecnologie e ad aumentare la produttività.

Molte industrie sovietiche, specialmente nel settore civile, usavano macchinari dell’epoca pre-bellica per la produzione di massa e le direttive della Commissione per la Pianificazione Statale venivano eseguite in modo approssimativo. Alla fine degli anni ’80 la produzione industriale era circa la metà di quella delle nazioni più avanzate (e questo malgrado la costruzione di grossi stabilimenti estremamente efficienti), mentre l’agricoltura era 4-5 volte meno produttiva.

Ma la produttività non è tutto. Nonostante la centralizzazione, gli investimenti e l’allocazione delle risorse rimanevano insufficienti. Per esempio, un villaggio veniva fornito di costose trebbiatrici a cui non veniva fatta manutenzione e che alla fine si rompevano e venivano lasciate ad arrugginire nei campi. Nell’aviazione civile continuavano a volare gli aerei degli anni ’60, che, sebbene eccellenti in quegli anni, erano già da molto tempo diventati obsoleti.

Nessuno si occupava di risparmio energetico. Gli impianti termoelettrici, sebbene teoricamente efficienti, arrivavano nelle strade e nelle case con tubature a scarso isolamento termico. I raccolti di frumento, ammassati nei campi, erano spesso contaminati a causa delle cattive condizioni di conservazione. Ci sono centinaia e migliaia di simili esempi: l’economia della fine dell’epoca sovietica assomigliava ad una barca che faceva acqua e che rimaneva a galla solo perché si continuava a far funzionare le pompe.

Negli anni ’80 il prezzo del petrolio era calato drasticamente. La leggenda vuole che sia stata un’operazione speciale della CIA destinata a far cadere l’Unione Sovietica e, se è vero, essa ha certamente avuto successo. Naturalmente una simile cospirazione non è mai esistita, si trattava semplicemente di sovrapproduzione. Dopo un brusco aumento dei prezzi negli anni ’70 molti si erano affrettati a fare investimenti nel settore petrolifero. D’altro canto i prezzi alti del carburante avevano costretto al risparmio. Auto compatte, aerei migliorati dal punto di vista del consumo energetico e la transizione dal petrolio al gas erano all’ordine del giorno.

E così nel 1981, la bolla petrolifera era scoppiata in modo naturale e in pochi anni i prezzi erano crollati tre volte [questo non è necessariamente vero, dal momento che, come oggi, l’accordo sul prezzo del greggio fra USA e OPEC era un modo per sabotare l’economia sovietica-commento del traduttore russo]. Se l’economia sovietica fossa stata bilanciata, se alla fine degli anni ’70 non fossimo diventati solamente fornitori di materie prime per l’Occidente, se non fossimo diventati completamente dipendenti dal frumento e dai beni di consumo che acquistavamo in Occidente con i petrodollari, se le imprese fossero state in grado di lavorare anche con la crisi e se l’elite al potere avesse reagito in tempo, allora avremmo potuto superare i tempi difficili.

In ogni caso accadde qualcos’altro. L’era post-bellica è stata caratterizzata dalla rivalità militare delle due superpotenze. L’Unione Sovietica è stata costretta a spendere preziose risorse per difendere la sua sfera di influenza, per questo motivo la dirigenza sovietica è stata incapace di attuare le riforme fondamentali.

Negli anni ’60 abbiamo avuto una seria possibilità di seguire la via cinese (o piuttosto il contrario: Deng Xiaoping ha replicato alla grande e a suo modo le esperienze delle riforme di Kosygin), per costruire un’economia valida e sostenibile e consolidare uno Stato forte e difendibile. I goffi e tardivi tentativi riformistici di Gorbachev non potevano essere di nessun aiuto e l’impero era ormai un malato terminale. La storia ha deciso altrimenti e le ragioni di ciò stanno negli eventi che sono occorsi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Si tratta di questo: il confronto militare con l’Occidente e il suo ruolo nella caduta dell’URSS, che vedremo nella parte successiva.

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Articolo di Sergei Poletaev pubblicato da FortRuss il 4 settembre 2015
Traduzione in italiano a cura di Mario per Sakeritalia.it

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