Girando e rigirando in una spirale crescente, la geopolitica del giovane XXI secolo assomiglia a un mandala psichedelico concepito da Yama, il Signore della Morte.

Kim Jong Un, presidente della Repubblica Popolare Democratica di Corea, reduce da un viaggio in treno di 70 ore, si è incontrato in una prospera Hanoi comunista con il candidato rivale concorrente al Premio Nobel per la pace Donald Trump, sotto lo sguardo benevolo dello zio Ho.

Questa stessa frase, se pronunciata non molto tempo fa, avrebbe suscitato immense urla di derisione.

Il presidente Kim, proprietario di un piccolo arsenale nucleare, è ritenuto degno di dialogo da parte della superpotenza. La leadership iraniana, che ha solo ridotte potenzialità nucleari, non lo è, anche dopo che la superpotenza ha abbandonato l’accordo multilaterale sul nucleare approvato dall’ONU.

Parallelamente, il confine più caldo dell’Asia si rivela essere non la zona demilitarizzata tra le due Coree, ma, ancora una volta, la Linea di Controllo del Kashmir tra le potenze nucleari India e Pakistan.

Se da un lato Islamabad e Delhi potrebbero, in teoria, arrivare a puntare missili nucleari l’uno contro l’altro, la Corea del Nord sicuramente non punterà nessun missile a testata nucleare su Guam, e Teheran non potrà puntare nulla, in quanto non possiede alcun missile a testata nucleare.

Detto alla leggera, in stile Looney Tunes, cancellato il progetto di cambio regime a Pyongyang, si persegue ancora il cambio di regime in Iran, ed è subentrato l’obbiettivo del cambio di regime in Venezuela. L’Iran può ancora stare nell’Asse del Male, ma il nuovo motivo conduttore è la “triade della tirannia” (Venezuela, Cuba, Nicaragua) mentre il governo di Caracas recita la parte di “Beep Beep” al Willy Coyote-superpotenza.

Mentre una schiera di loschi neocons americani e ambigue “fondazioni” mantiene accesa la fiamma del cambio di regime in Iran, arrivando persino a costruire un legame tra Teheran e al-Qaeda, in Venezuela avanza uno scenario nascosto. Uno straordinario briefing del ministero delle Relazioni Estere di Mosca lo scorso venerdì ha rivelato che “le forze speciali statunitensi e le unità tecniche saranno dislocate più vicine ai confini del Venezuela. Abbiamo informazioni che gli Stati Uniti e i suoi partner della NATO  stanno organizzando una massiccia consegna di armi proveniente da un paese dell’Europa orientale all’opposizione venezuelana”.

I fatti sono inesorabili. La NATO, dopo quasi due decenni, è stata miseramente sconfitta in Afghanistan. La guerra per procura in Siria di NATO e del Consiglio di Cooperazione del Golfo è fallita. I vincitori sono Damasco, Teheran e Mosca. Il conflitto in Donbass è congelato. Si è deciso, quindi, di tornare ad una dottrina Monroe riciclata, anche se il solito trucco umanitario – reminiscenza dell’ ‘‘imperialismo umanitario” che ha portato alla distruzione della Libia – potrebbe, per ora, esser fallito.

Il vicepresidente brasiliano Generale Hamilton Mourao ha pronunciato parole di buonsenso su  “tutte le opzioni sul tavolo” per il cambio di regime in Venezuela del suo presidente, Jair Bolsonaro. Mourao ripete costantemente che “la questione venezuelana deve essere decisa dai venezuelani”, aggiungendo che le minacce americane suonano più “come retorica che azione” in quanto un attacco militare sarebbe “senza scopo”.

Guarda quella K

Che cosa c’è in un nome?  “Pakistan” può davvero significare “”terra dei puri” in Urdu, ma la chiave di lettura è nel suo acronimo; K sta per Kashmir – insieme a P per Punjab, A per Afghania (praticamente le aree tribali pashtun), S per Sindh e T per il “tan” in “Beluchistan”. La K è una questione di identità nazionale.

La prima guerra Indo-Pakistana dopo la Partizione del 1947 fu sul Kashmir. Nell’anno seguente, il Kashmir fu diviso dalla Linea di Controllo (LoC), che rimane di fatto il Muro di Berlino dell’Asia, molto più pericoloso della zona demilitarizzata (DMZ) tra le Coree. Un’altra piccola guerra attraverso la LoC si svolse nel 1999.

Il Kashmir è un nodo geostrategico cruciale. Supponendo che l’India possa mai arrivare a possederlo tutto, ciò gli darebbe un ponte diretto verso l’Asia centrale e un confine con l’Afghanistan, ma priverebbe il Pakistan di un confine con la Cina, annullando in tal modo gran parte del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), uno dei progetti chiave della “Belt and Road Initiative” (BRI).

Se il Pakistan lo possedesse tutto, ciò risolverebbe le preoccupazioni del paese per la sua sicurezza idrica. Il fiume Indo nasce in Tibet sull’Himalaya e scorre attraverso il Kashmir controllato dall’India prima di entrare in Pakistan e correre fino al Mar Arabico. L’Indo e i suoi affluenti forniscono acqua a due terzi del Pakistan. Nuova Delhi ha appena minacciato di usare come arma il controllo del flusso dell’acqua in Pakistan.

Non si vede fine alla ripetuta e continua turbolenza del Kashmir per schermaglie o piccoli  conflitti tra jihadisti – protetti da Islamabad a diversi livelli – e l’Esercito Indiano. Il gruppo islamista Jaish-e-Mohammed (JeM) vuole l’intero Kashmir annesso ad un Pakistan in cui viga la legge della Sharia.

L’ossessione di JeM’s sul Kashmir è condivisa anche dai loro alleati di fatto di Lashkar-e-Taiba (LeT). Entrambi sono appoggiati – con sfumature diverse – dall’agenzia di intelligence pakistana ISI. Soprattutto, entrambi sono fortemente sostenuti finanziariamente dalla famiglia Wahabita dei Saud e dagli Emirati Arabi Uniti.

Non ci può essere una soluzione per il Kashmir senza la fine del proselitismo, del finanziamento e della fornitura di armi saudite: miscuglio tossico che ha allevato la famosa cultura pakistana del kalashnikov. E non ci potrà essere soluzione fino a quando la capacità della Casa Reale Saudita di disporre di armi nucleari “ordinandole” a Islamabad rimane il primo segreto di Pulcinella dell’Asia meridionale.

Russia e Cina come voci della ragione

Se questo fosse un regno ragionevole e insensibile a Yama, India e Pakistan potrebbero dialogare: il Primo Ministro Imran Khan lo ha appena proposto, e lo potrebbero fare nella cornice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai di cui entrambi gli stati sono membri, assieme a Russia e Cina nel ruolo di mediatori.

E questo ci porta a quello che è successo mercoledì a Yueqing, in Cina, totalmente al di fuori dei radar occidentali: un incontro de facto a livello ministeriale dei “RIC” dei BRICS, che ha visto assieme il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, il ministro degli esteri cinese Wang Yi e il ministro degli esteri indiano Sushma Swaraj.

Lavrov potrebbe aver denunciato i “tentativi assolutamente sfrontati” di “creare artificialmente un pretesto per un intervento militare” in Venezuela. Ma il segnale di svolta della conversazione avrebbe dovuto essere quello che la Russia, la Cina e l’India si sono detti sul Kashmir e che potrebbe avere poi un impatto diretto sia su Islamabad che su Nuova Delhi al fine di disinnescare uno scenario tutt’ora esplosivo.

Le posizioni coordinate di Cina e Russia sono state assolutamente utili per facilitare il dialogo della Corea del Nord con l’amministrazione Trump. Eppure siamo ancora molto lontani dal realizzare il sogno del presidente della Corea del Sud Moon: Trump che dichiara ufficialmente la fine della guerra coreana 1950-53 e la sostituzione dell’attuale armistizio con un trattato di pace comprendente accordi reciproci di sicurezza a prova di bomba. In fondo, questa è la condizione primaria posta dalla Corea del Nord per iniziare a contemplare la denuclearizzazione.

La Cina e la Russia, teoricamente, hanno quello che serve per portare l’India e il Pakistan alla ragione, oltre all’autorevolezza per esercitare pressioni sul wahabismo armato dell’Arabia Saudita.

Eppure, dal punto di vista di Washington, Cina e Russia rappresentano “minacce”: e questo a partire dalla National Security Strategy fino a funzionari come il generale dell’Air Force Terrence O’Shaughnessy, comandante del Northcom, che ha appena dichiarato a una commissione del Senato che l’intento della Russia di mettere a repentaglio gli Stati Uniti “costituisce una minaccia incombente”.

Alcuni sono più uguali degli altri

Cina, Russia e Iran sono nodi essenziali dell’integrazione euro-asiatica e sono interconnessi con i principali vettori della Nuova Via della Seta, attraverso anche l’adesione dell’Iran all’accordo commerciale all’Unione Economica Euroasiatica e l’espansione del Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud (INSTC). Considerando la posta in gioco, Lavrov e Yi non potevano che rimanere sbalorditi dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif che nel frattempo annunciava le sue dimissioni tramite un suo post su Instagram.

Fonti di Teheran sostenevano che il motivo principale delle dimissioni di Zarif era il non essere stato informato di un incontro ad altissimo livello a Teheran lunedì scorso – a cui non presenziò – del siriano Bashar al-Assad con il leader supremo Ayatollah Khamenei, con il comandante dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC) Qassem Soleimani, e con il presidente Hassan Rouhani, in cui si discusse di questioni militari strettamente siriane e non di diplomazia. Zarif avrebbe potuto non essere nella stanza, ma il suo numero due, Abbas Araghchi c’era.

Alla fine, Rouhani ha respinto le dimissioni di Zarif, sottolineando che erano contro gli interessi nazionali dell’Iran. E, fondamentalmente, Soleimani ha detto che Zarif aveva il sostegno totale di Khamenei. Anche se diverse fazioni estremiste iraniane potrebbero essere irritate sia con Zarif che con Rouhani, descrivendoli come pazzi caduti nella trappola americana, l’ultima cosa di cui Teheran ha bisogno attualmente – sotto la pressione della guerra ibrida – è di divisioni interne. Parallelamente, Russia e Cina, non rinunceranno a dare il loro sostegno.

Washington potrebbe introdurre variazioni nella sua Guerra Ibrida, ma la maggior parte delle reazioni sarebbero di pura Guerra Fredda. Il meccanismo rimane lo stesso. Una fortuna del capitale prelevato dal denaro dei contribuenti degli Stati Uniti viene riversata sul complesso industriale-militare, con appaltatori della Difesa e grandi corporazioni che restituiscono favolosi contributi alla campagna elettorale della classe politica. Ecco perché una come Tulsi Gabbard, che è contro le guerre calde, fredde o ibride e contro i cambiamenti di regime, sarà denigrata all’infinito dalla lobby delle armi, e gli verrà impedito di correre per la presidenza.

Il Sud Globale ha ormai imparato che, girando e rigirando in una spirale espansiva, alcuni paesi sono davvero più uguali di altri. Alcuni possono essere inesorabilmente marchiati come favoreggiatori del terrorismo (Pakistan), e le potenze nucleari di regola devono essere accontentate (DPRK) e sedotte (l’India in quanto asse della strategia “Indo-Pacifico”). Il presidente Kim è ora un “grande leader” che può consegnare alla sua nazione un “tremendo futuro”.

Le potenze non nucleari, specialmente quelle ricche di risorse naturali e che attuano strategie per sostituire il dollaro, come l’Iran e il Venezuela, saranno destinate ad essere bersaglio per i cambi di regime e ad essere lentamente e dolorosamente divorati da Yama, il Signore della Morte.

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 Articolo di Pepe Escobar pubblicato su The Saker il 1° marzo 2019
Traduzione in italiano di Pier Luigi S. per SakerItalia

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